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Oggi Biella ricorderà l’Eccidio di San Cassiano

«La guerra aveva assunto dimensioni individuali, domestiche, agiva nelle coscienze provocando guasti profondi. Ora davvero potevamo dire di averla in casa e dentro ciascuno di noi»

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BIELLA – Oggi, domenica 17 dicembre, si ricorderà l’Eccidio di piazza San Cassiano a Biella. Alle 10 inizierà la cerimonia con la deposizione di una corona d’alloro e i discorsi ufficiali delle autorità. Successivamente, alle 10.45, si terrà la Santa Messa nella chiesa di San Cassiano.

Una delle pagine più tristi della storia cittadina, ma non solo, come abbiamo ricordato nel libro de La Provincia di Biella  “I luoghi del cuore dei biellesi” ancora acquistabile presso la nostra redazione.

«Mancano pochi giorni a quello che per l’Italia è un altro Natale di guerra». Inizia così l’articolo di Rolando Magliola che ripercorre la storia dell’eccidio di piazza San Cassiano.

La vita va avanti, pur tra mille difficoltà; sulla città incombe una opprimente cappa di preoccupazione e angoscia: «La guerra aveva assunto dimensioni individuali, domestiche, agiva nelle coscienze provocando guasti profondi. Ora davvero potevamo dire di averla in casa e dentro ciascuno di noi» (Bruno Pozzato). All’inizio di dicembre l’aria è pervasa dalla sensazione che qualcosa stia per accadere. E infatti i partigiani si muovono: incitano gli operai delle fabbriche a scioperare, assaltano i presidi dei carabinieri per recuperare le armi, cominciano ad attaccare i fascisti (Bruno Ponzecchi, direttore del Lanificio Giletti e commissario del Fascio di Ponzone viene fatto prigioniero e giustiziato il giorno11); non esitano addirittura a spingersi fin dentro la città.

Nel Biellese intanto gli scioperi vanno avanti, anzi si estendono. É martedì 21 dicembre 1943. Di prima mattina un ufficiale e un graduato, accompagnati da un capitano dei carabinieri, si dirigono su due automobili verso Tollegno, decisi a far sospendere lo sciopero in atto alla Filatura; quando le vetture raggiungono il bivio per Pralungo vengono bersagliate da numerosi colpi di fucile. Due tedeschi morti: i nazisti non manifestano particolare interesse quando a cadere sono gli «alleati» fascisti ma non possono, e non vogliono, rimanere inerti di fronte all’uccisione dei loro commilitoni. A peggiorare le cose si aggiunge, intorno a mezzogiorno, la morte di un altro ufficiale germanico, freddato a colpi di pistola da uno sconosciuto sulla salita di Riva. Adesso la rappresaglia è davvero inevitabile.

In città intanto cresce la preoccupazione, si mormora che i nazisti vogliano dar fuoco all’intero quartiere di Riva; solo l’intervento del vescovo mons. Carlo Rossi, il quale si reca di persona dal comandante germanico, riesce a sventare la terribile minaccia: il quartiere è salvo. Qualcuno deve comunque pagare per la morte dei tre soldati. È ormai pomeriggio inoltrato.

Angelo Cena, di 42 anni, che tutti chiamano Giolino, proprietario della trattoria «Porto di Savona» situata all’angolo tra via Pietro Micca e via Littorio (via Amendola), è da poco rientrato a Biella e sta parlando con la moglie e le figlie. All’improvviso alcune raffiche di mitra investono il locale, mandando in frantumi le vetrate: colpito a morte, l’oste si accascia a terra. È la prima vittima della ferocia teutonica.

Le SS del 15° reggimento di polizia fanno irruzione all’interno, afferrano Francesco Sassone, manovale di 55 anni e lo portano via. Gli spari richiamano l’attenzione di Carlo Gardino, 51 anni. L’uomo, che abita lì vicino, dice alle sue due figlie di rimanere in casa e esce per vedere cosa sia successo: viene subito bloccato dai soldati con la svastica dipinta sull’elmetto.

I tedeschi catturano poi altri tre sventurati e li portano al comando di via XX Settembre: sono Norberto Minarolo (49 anni) e Pierino Mosca (51 anni), entrambi di Pralungo e Aurelio Mosca, marinaio in licenza «che era uscito per comprare il latte alla sua piccina» (Gustavo Buratti).

I sette prigionieri, insieme a loro ci sono anche due partigiani catturati in precedenza, trascorrono una notte da incubo, segnata da sevizie e percosse; la dose maggiore di botte la subiscono i due partigiani, Alfredo Baraldo e Basilio Bianco, perché i tedeschi vogliono che parlino, che dicano chi sono e dove si trovano i loro compagni. Niente da fare: i due non parlano. I tedeschi vogliono vendetta per i loro camerati uccisi e tocca a Baraldo leggere ai suoi compagni di sventura la sentenza che li condanna a morte.

La mattina di mercoledì 22 dicembre 1943 i prigionieri sono condotti sul luogo dove saranno fucilati: piazza San Cassiano, detta anche «piazza del Gallo» per via dell’Albergo del Gallo Antico che si trova a fianco della chiesa; mentre percorrono via Umberto (via Italia) la moglie di Aurelio Mosca, il marinaio in licenza, si affanna a chiedere dove li stiano portando: quando le rispondono che stanno per essere fucilati sviene di colpo. Giunti sul posto, i sette vengono schierati davanti alla facciata dell’albergo. La scarica di proiettili squarcia l’aria, sette uomini si accasciano sul selciato.

I tedeschi se ne vanno, lasciano solo due sentinelle; non si sono accorti che uno dei fucilati è ancora vivo, seppur gravemente ferito allo stomaco. È il partigiano Alfredo Baraldo, che spinto dalla disperazione si alza e si catapulta nel cortile del Gallo Antico: riesce a salvarsi e dopo qualche settimana riprende la via della montagna.

Articolo di Rolando Magliola

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