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Nel Biellese per godersi la pensione ma si ammala di Sla e inizia l’incubo
Il racconto: «Perdere l’aiuto su cui contavo è stato devastante»

Anthony Zambonini ha dedicato ogni giorno della sua vita alla cultura, alla conoscenza e all’insegnamento. Inglese di nascita, è arrivato in Italia a metà degli anni ’80, portando con sé il bagaglio di un percorso accademico compiuto interamente nel Regno Unito: laurea e post-laurea conseguiti in Inghilterra, una carriera brillante da docente universitario in prestigiosi atenei italiani come l’Università di Milano, Bologna, l’Insubria, oltre a un passato presso la University of Hull. Autore di manuali e corsi di lingua inglese, Zambonini ha dedicato ben 38 anni alla formazione di giovani studenti italiani. Dopo una vita intera passata tra lezioni, pubblicazioni e università, il professore ha deciso di godersi finalmente una meritata pensione e spinto dall’amore per la natura e la tranquillità, ha scelto di venire a vivere in un piccolo paese nel Biellese. Ma poco dopo il suo trasferimento, la diagnosi che cambia tutto: Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), una malattia neurodegenerativa progressiva. Nel suo caso, una forma bulbare, che ha colpito prima le braccia, rendendo sempre più difficili anche i gesti più semplici: cucinare, lavarsi, vestirsi.
Il racconto
«Pensavo di godermi un po’ di anni in tranquillità, dopo una vita lavorativa. Invece mi sono trovato con questa malattia… mi ha fregato», racconta con voce calma ma amareggiata. A causa della sua condizione, Zambonini ha bisogno costante di assistenza; soprattutto per via della disfagia – uno dei sintomi più pericolosi della SLA – che può provocare crisi respiratorie improvvise.
Serviva una badante convivente, presente giorno e notte, quindi si affida ai servizi sociali del territorio che gli segnalano una possibile candidata: una donna ucraina di 47 anni. All’inizio, il rapporto tra i due sembra promettente: lei si trasferisce nella casa di Anthony, dove prende anche la residenza, rassicurata da un contratto di lavoro che viene firmato ufficialmente il 7 aprile: ogni cosa sembrava sistemata e il rapporto di lavoro si stava svolgendo senza attriti.
Poche settimane dopo però tutto cambia: il 15 aprile lei comunica al suo datore di lavoro che il giorno successivo sarebbe tornata in Ucraina per motivi familiari e lui, comprendendo la situazione, acconsente ma chiedendole qualche settimana di preavviso per trovare una sostituta, dato che avendo le braccia paralizzate, non può restare senza assistenza. Lei accetta di partire il 2 maggio, dandogli due settimane per organizzarsi e Anthony si attiva subito per trovare una nuova assistente. Ma due giorni dopo – la mattina del 17 aprile – la badante si presenta dicendogli che partirà l’indomani, venerdì 18, alle 7 del mattino e così ha fatto. Nessuna possibilità di mediazione, nessuna cura per le esigenze di un uomo gravemente malato e senza assistenza.
«Io le ho detto che non poteva partire lasciandomi solo ma lei aveva già deciso che sarebbe andata e non c’è stato modo di dissuaderla. Capisco la sua emergenza, ma ci sono anche degli obblighi. Non si può semplicemente sparire da un giorno all’altro, lasciando solo un malato grave». Appena appresa la notizia, l’uomo ha contattato gli assistenti sociali e, con loro, ha dovuto costruire in fretta una rete di copertura: turni improvvisati e tante persone diverse. «Trovare qualcuno all’ultimo minuto significa pagare molto di più. Non solo affronti il disagio, ma anche una spesa improvvisa e pesante» E poi c’è la ferita più profonda, quella che non si misura in euro: la perdita della fiducia. «Con la SLA ci convivo ogni giorno, ma perdere l’aiuto su cui contavo, per cui pagavo, è stato devastante».
Oggi Anthony non riesce più a sollevare le braccia e riesce ad usare il computer solo a tratti ma soprattutto, si sente abbandonato da chi doveva esserci, ma anche da un sistema che avrebbe dovuto tutelarlo.
«Quello che è successo, teoricamente, è anche un reato – spiega – esiste un articolo del codice penale, il 591, che vieta l’abbandono di persone non autosufficienti. Eppure, venerdì 18 aprile, alle 7 del mattino, è esattamente ciò che è accaduto». La storia di Anthony Zambonini accende un riflettore su un tema troppo spesso dimenticato: la solitudine di chi vive con malattie neurodegenerative, una solitudine che non si dovrebbe affrontare da soli.
Martina Mainardi
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