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Il Villaggio elettorale

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Fonzarelli di provincia

BIELLA – Non ci fosse stato un drammatico epilogo, staremmo qui a parlare del solito mezzogiorno e mezzo di fuoco con la pummarola ‘n coppa dal sapore piuttosto provincialotto: per fatti di sangue, a Biella, bastano le armi giocattolo. Come fosse una replica amatoriale di Gomorra, serie tv di successo. Non per sminuire la gravità di un fatto di cronaca che riguarda la nostra città, ma per misurarne la grevità in un dibattito pubblico eccessivamente appesantito nei toni.

Al di là dei veri protagonisti di questa storia infinita, giusto per restare nell’ambito delle suggestioni cinematografiche, c’è un dito puntato contro un intero quartiere: il Villaggio Lamarmora.

Basta farsi un giro tra i 200 commenti a un post sui social di questo giornale, in cui l’ex vicesindaco, che lì risiede, difende questa fetta di città e i suoi abitanti per rendersene conto.

Che un problema ci sia è parso questa volta più evidente che in altre occasioni, e l’attuale amministrazione risponde seguendo una sua intensa vocazione: spostare il problema invece che tentare di risolverlo. Non che ci siano soluzioni prêt-à-porter da indossare alla bisogna, ma non appare nemmeno all’orizzonte un ragionamento compiuto sulle possibilità da mettere in campo per affrontare un problema che sempre rivela i suoi aspetti umani e culturali irrisolti. Anche dalle precedenti amministrazioni, s’intende. Anzi.

Già nell’ormai lontano 1956, anno nel quale si posero le basi per lo sviluppo del quartiere, i giornali d’opposizione lo definivano il “Villaggio elettorale” perché il progetto fu presentato a ridosso delle elezioni amministrative. Pur cambiando periodicamente di nome, e inseguendo lo sviluppo cittadino che lo vide nominato “Case popolari di via per Ponderano”, per poi divenire “Nuovo villaggio di via Rosselli” e poi solo finalmente “Villaggio Lamarmora”, villaggio elettorale lo è rimasto nei fatti. Resta difatti indimenticata – anche se speriamo lo sia presto – la chiusura dell’ultima campagna elettorale in salsa neomelodica del sindaco sceriffo, officiata proprio nel quartiere per accattivarsene le simpatie.

Il Villaggio Lamarmora nasce in realtà come villaggio operaio legato a progetti di edilizia popolare, sulle orme di altri villaggi operai del Biellese, frutto di una sorta di interessato welfare aziendale, buono per ospitare e controllare socialmente la manodopera necessaria all’industria tessile di allora. Sopportò così, nel tempo e come tutte le altre analoghe strutture, le varie ondate migratorie: dalla bassa vercellese prima (la mia famiglia arriva da questa), dal Veneto poi e dal Meridione ancora dopo. Fino a quella extracomunitaria contemporanea. Il problema, se vogliamo proprio chiamarlo così, arriva quindi da lontano. Perché, al di là della spontanea integrazione della maggior parte dei suoi abitanti, hanno resistito sacche irrisolte di “cultura” popolare.

Del resto, già alla sua ufficiale inaugurazione alla presenza dell’allora Primo ministro Antonio Segni, nel 1956 (anche se in realtà nacque ben prima, attorno agli anni ’20 su un progetto di Felice Trossi), il quartiere veniva definito “un moderno gruppo abitato, costituente un Centro satellite della Città”. Il difetto sta quindi nel manico: non averlo mai interpretato come parte della città, ma sempre come un elemento alieno, satellite appunto. Da allora il Villaggio è rimasto periferia, più nella testa dei biellesi che nella realtà, visto lo scivolamento a Sud della città. Fu negli anni ’80, in seguito alla riqualificazione del quartiere Riva (anch’esso storicamente interpretato come periferia urbana) e ai nuovi progetti di edilizia popolare, che il quartiere divenne, nell’immaginario cittadino, il Bronx. Sinonimo malfamato di zona off limit.

Però sono anni che ormai il quartiere è stato assorbito nel nucleo centrale della città: ciò che era periferia allora non lo è più adesso. Mentre nella testa non abbiamo mai smesso di considerarlo tale, anche da un punto di vista amministrativo, sociale e culturale. Siamo periferia di noi stessi e non ce ne siamo mai accorti.

Lele Ghisio

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