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Il vecchio ospedale tra fantascienza e distopia

Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio

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Fonzarelli di provincia

La dieta del chiacchiericcio da bar, e più o meno contemporanee articolazioni dei giornali locali, è a base di metaforici peperoni. Di quelli che è meglio evitare a cena, perché poi si ripropongono per la notte intera. Fino alla nausea. La discussione pubblica sul destino del vecchio ospedale cittadino è tra i maggiori ingredienti di questa peperonata. Di sicuro la più materialmente corposa, visto che la vista del monoblocco occupa lo sguardo da vicino per chi è in città e da lontano per chi ci arriva, almeno da Est.

La sua imponente presenza non smette di interrogarci, nonostante l’abitudine a inquadrarlo delle nostre retine e a percepirlo come una visiva musica di sottofondo al panorama. Le argomentazioni più fighette tirano in ballo lo skyline, anglicismo alla moda per dire quanto sia brutto da vedere e quanto deturpi il paesaggio. Poi, certo, come in tutte le diete personalizzate, c’è chi questo sguardo non l’immaginerebbe senza, rivendicando inutili nostalgie di se stesso. Il dato oggettivo resta che è una inutile bruttura che siamo costretti, nostro malgrado, a sopportare.

Progettato dall’architetto Marcovici sul finire degli anni ’30 e inaugurato nel 1939 da un duce pure lui incamminato sul viale del tramonto, contava di 862 posti letto e un’architettura in linea col rigore del ventennio. Già negli anni ’60, sulla spinta del miracolo economico di un’Italia messa a nuovo dal secondo dopoguerra, se ne ravvisavano i limiti e l’idea di un ospedale nuovo s’insinuava nella comunità locale e animava le discussioni politico-amministrative.

Alla metà degli anni ’70 risale l’acquisizione del terreno ove sorge il nuovo impianto ospedaliero e al 1994 lo sforzo urgente di Elvo Tempia nel commissionare a uno studio romano un programma di fattibilità finanziaria che potesse essere presentato al ministero competente attraverso la Regione Piemonte, per fare rientrare il nuovo ospedale nell’imminente programmazione degli investimenti sanitari, sburocratizzando di fatto un percorso che altrimenti avrebbe richiesto tempi fuori scala.

Passarono comunque altri vent’anni prima di veder realizzato il sogno di dare al territorio una struttura al passo coi tempi. Nel frattempo non trascurammo di sperperare qualche miliardata delle vecchie lire per quell’ecomostro che è, ancora, il fantomatico ambulatorio di sanità pubblica i cui resti insistono tutt’oggi sull’area del nuovo Degli Infermi, ben mascherati dalla vegetazione che ha ormai preso il sopravvento. Ma quello non rientra nella logica dello skyline deturpato: è argomento dimenticato da cittadini e amministrazioni e non suscita alcuna pulsione nostalgica, non essendo mai stato nemmeno inaugurato.

Tornando al vecchio ospedale: dagli anni ’60 in qua non siamo stati capaci di decidere cosa farne, e come. E dire che di tempo ce n’era. Forse s’avrebbe da costringere per legge chi progetta il nuovo a progettare pure lo smaltimento o il riciclo del vecchio. Uso apposta termini afferenti la gestione dei rifiuti, perché è evidente il percorso del vecchio stabile, lanciato verso una ingombrante fatiscenza. A meno che lo si riconverta in set cinematografico a esclusivo uso del genere distopico: la cinematografia internazionale è piena di film che iniziano col risveglio del protagonista in un ospedale vuoto e semidistrutto. Volendo siamo attrezzati anche per gli zombie, ma questo è un altro tema.

Il vecchio ospedale è tornato agli onori della cronaca ora che la Soprintendenza pare avere sbloccato la parte di sua competenza e la Regione può dare al Comune di Biella il “diritto reale” per poter agire in qualche modo sull’immobile che, ricordiamo, è di proprietà regionale. E lo è per ragioni di bilancio, di cui è una voce che se si toglie crea una voragine. Quindi imputare alla sola amministrazione di Biella ogni responsabilità della mancata destinazione è ingiusto, anche se quella attuale si limita allo “studieremo qualcosa, ma mi sa che è meglio demolire”.

Eppure una certa frenesia all’inizio c’era stata: un’amministrazione indisse un concorso di idee, che produsse 28 studi sull’area. Ma i conti senza l’oste è sempre difficile farli: in assenza di privati che vogliano investire, il pubblico non può far altro che abbozzare. Anche la proprietà regionale, attraverso la locale Asl, si mosse. O almeno fece la mossa. Perché al di là di un paio di pomposi comunicati stampa diffusi da Sviluppo Genova Spa, la società che con l’Asl strinse un accordo per la riqualificazione già nel 2016, non se ne fece nulla. E nulla si è più saputo dall’inizio del 2019, quando la società pomposamente comunicava di aver registrato il marchio “BiellaItalia” per trasformare l’ex ospedale nella “capitale europea del benessere”, con annesso polo enogastronomico, e un investimento di 55 milioni di euro. Parole rimaste fantascienza però, altro che distopia.

Lele Ghisio

1 Commento

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  1. Ardmando

    21 Marzo 2023 at 8:49

    Cosa farne? Abbattere la veccia struttura fatiscente che è un pugno nell’occhio. Uno dei tanti orrori urbanistici di edilizia abbandonata che appesta la città. Chi volete che investa denaro (TANTO) per riqualificare una ex struttura ospedaliera fatiscente? Non si riesce a trovare un uso per i tanti stabilimenti abbandonati che deturpano la città e che sono sostanzialmente scatoloni vuoti, figuriamoci un ex ospedale. Dopo decenni si è riusciti ad ottenere la costruzione di un collegamento con le autostrade degno di questo nome, per riqualificare ex stabilimenti ed ex ospedale, dovranno passare come minimo altri cento anni, con la speranza che nel frattempo il logorio del tempo li faccia collassare su se stessi, risolvendo così in modo autonomo l’indecisione degli inerti biellesi.

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