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Gianfranco Sadocco, 60 anni fa tra i soccorritori del Vajont

Il cossatese 81enne ha ricordi indelebili: “Ogni volta che torno in quei luoghi l’impatto è fortissimo”

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Gianfranco Sadocco

È stato fra i soccorritori che sono intervenuti nella tragedia del Vajont avvenuta il 9 ottobre 1963, in cui persero la vita 1.910 persone. Gianfranco Sadocco, 81 anni, residente a Cossato, porta ricordi inevitabilmente indelebili.

Gianfranco Sadocco, un cossatese tra i soccorritori del Vajont

«Mi sono ritrovato coinvolto perché in quel periodo prestavo servizio militare a Feltre. Avevo 21 anni – racconta -. La notizia del disastro, avvenuto alle 22.35, era arrivata in piena notte. Quella sera in televisione trasmettevano una partita di calcio e molta gente del paese era ancora al bar e nelle osterie».

La disgrazia, lo ricordiamo, avvenne nel bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont nell’omonima valle, tra Friuli-Venezia Giulia e Veneto.

Una frana si staccò dal monte Toc e cadde nelle acque della diga, con conseguente tracimazione.

Furono coinvolti i paesi di Erto e Casso, vicini alla riva del lago, e vennero inondati i centri abitati a valle, tra cui Longarone.

«Solo al mattino ci siamo davvero resi conto dell’entità della tragedia. Corpi sparsi ovunque, mamme che cercavano i loro figli…»

«Mi trovavo in caserma a quaranta chilometri di distanza dal fatto – prosegue -. Ricordo che è scattato l’allarme e siamo stati radunati di corsa perché occorreva prestare soccorso. Ci hanno caricati sui camion dell’esercito e via subito. Arrivati sul posto, siamo stati dotati di torce che proiettavano grandi fasci di luce. L’intervento è stato immediato, per quello che abbiamo potuto. Soltanto al mattino ci siamo resi conto dell’entità della tragedia. C’era un mare di fango. Sulla superficie si vedevano corpi sparsi ovunque, ma sotto a un metro o due di terra ce n’erano altri, che sono poi stati ritrovati anche dopo un mese, per non parlare di quelli che se li è portati via l’acqua e non sono più stati ritrovati. E c’erano le mamme che cercavano i loro figli…».

Il ritorno a Longarone anni dopo

Gianfranco ne parla ancora con lo sguardo smarrito, nonostante il tempo trascorso. «A Longarone sono poi tornato di nuovo anni dopo, diverse volte – aggiunge -. Nel cimitero di Fortogna sono sepolti i corpi ritrovati. A ricordare le vittime ci sono le pietre con le date e le croci. Sembra un cimitero di guerra. Ci sono stato con tutta la famiglia. Tornare sul posto è sempre come fare un pellegrinaggio. L’impatto per me, ma anche per i miei cari, è sempre fortissimo».

Nel 50° anniversario l’Amministrazione comunale ha organizzato una cerimonia commemorativa.

«È stata un’occasione per i volontari che hanno prestato soccorso di rivedersi – dice la moglie Mirella -. Ha fatto piacere condividere i ricordi, ristabilire i contatti. C’erano altri volontari provenienti dal Biellese, da Quaregna e da Biella. Abbiamo partecipato a diverse ricorrenze. Nel 1993, il sindaco del periodo Gioachino Bratti, appena saputo della presenza di Gianfranco, l’aveva ricevuto. Nel 45° anniversario, i bimbi delle scuole gli avevano donato un sasso del luogo “della Memoria”, chiuso in un sacchettino».

«C’erano compagni militari che vedendo la tragedia non reggevano e svenivano. Ancora oggi, quando ci ripenso, mi rivedo là e mi sento totalmente coinvolto»

Per Gianfranco, è stata una prova forte, ancora di più ad appena 21 anni.

«Qualche compagno militare, vedendo la tragedia sul posto, è svenuto. Alcuni non hanno retto. Ancora oggi a pensarci mi rivedo là e mi sento totalmente coinvolto. È stato come se mi crollasse il mondo addosso. Non riuscivo a credere a ciò che vedevo. A raccontarlo sembra di dire cose non vere. Tanto per rendere l’idea della potenza dell’acqua mista a fango, mi vengono in mente le rotaie della ferrovia che si erano attorcigliate su se stesse fino a formare un nodo. Voglio ricordare le tante persone che sono arrivate ad aiutare, soprattutto dal Sud. La costruzione di nuove abitazione ha portato lavoro e molti di loro si sono poi trasferiti con la famiglia».

«Della tragedia imminente però si sapeva – prosegue ancora Gianfranco -. Un contadino originario del luogo diceva che lì non avrebbero dovuto costruire. Lui sapeva che il terreno era friabile. Aveva sempre visto la diga come una minaccia. Un tecnico si era addirittura tolto la vita per questo motivo. Avevano ipotizzato che se la diga non avesse retto, la città di Belluno sarebbe sparita. Per fortuna non è stato così».
«Oggi Longarone è un paese nuovo, ma se sali alla diga, il silenzio è assordante – conclude Mirella -. Siamo dovuti venire via. L’emozione è stata troppo forte».

Anna Arietti

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