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I cappelli biellesi che raccontano la nostra storia

Tra le riche, la rubrica di Enrico Neiretti

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C’è un punto preciso in cui la valle Cervo mostra il suo vero aspetto: dorsi impervi, selvaggi, che paiono impenetrabili, densi di vegetazione fitta e scura, delimitati da pareti di roccia nuda e da muraglioni di pietra. In mezzo la strada che taglia la montagna e sale costeggiando il torrente che scorre impetuoso, nel suo letto stretto, alcuni metri sotto la via.
Poi la valle si apre un po’, ma la sensazione di verticalità è sempre forte; guardi le stradine che si arrampicano per i pendii e ti prende una sorta di vertigine.

Per incontrare quel punto, dove la vallata smette di essere un luogo tutto sommato qualsiasi e diventa l’ambiente aspro, atavico ed affascinante che conosciamo, bisogna superare Andorno Micca, attraversare Sagliano Micca, e fare attenzione a dove le costruzioni diventano più antiche, austere, strette ed alte. Appunto verticali. Qui, dopo una serie di mezze curve che sembrano farti correggere la traiettoria per entrare con precisione nel tratto di strada stretto e tortuoso che segue, si incontra un vecchio stabilimento industriale che su una facciata riporta, dipinta sul muro, l’insegna “Cappellificio Cooperativo Cervo”. L’edificio, che mostra orgogliosamente i tratti dell’architettura industriale ottocentesca, è sormontato da una ciminiera: più verticale ed antico di così non si può.

Da lì in avanti il paesaggio diventa tutto tutto verticale, tutto parla il linguaggio della storia e della natura. Eppure proprio questo territorio così antico, apparentemente chiuso, stretto ed inaccessibile, mostra segni di innovazione e di modernità interessantissimi. Borghi splendenti come Rosazza, luoghi di ospitalità prestigiosi come la country house la Bursch, e poi su, la montagna che si apre dopo i boschi, Bielmonte e l’Oasi Zegna con tutta la bellezza mozzafiato di un territorio a noi prossimo eppure ancora tutto da scoprire. Non è certo un caso che questo antico stabilimento con una lunghissima storia sia proprio lì, all’ingresso di questo mondo in bilico tra storia e modernità, quasi a segnare lo spirito e le tradizioni di una vallata davvero speciale.

Salgo in un mattino di pioggia, in una di quelle giornate che ultimamente sono diventate scenario consueto. La pioggia batte forte sull’auto, i tergicristalli lavorano veloci e quando arrivo di fronte all’ingresso del cappellificio mi accosto, spengo il motore, guardo fuori e penso -ironia della sorte- che un cappello mi farebbe proprio comodo per scendere dall’auto senza bagnarmi la testa.

Benedetta Borrione mi accoglie aprendo la porta che dà l’accesso agli uffici. Capisco subito dal suo sguardo e dal tono delle sue parole quanta sia la passione che anima il suo lavoro lì al cappellificio. Un’attività di famiglia, che Benedetta porta avanti con il padre, la sorella ed il fratello. Dentro tutto parla di storia: gli ambienti con i pavimenti in cementine e in parquet, le grandi vetrate che dividono le stanze e che aprono la vista sulla vallata, gli arredi; ma soprattutto i macchinari. Al piano inferiore le macchine e le attrezzature più antiche, non più utilizzate, hanno una presenza forte, segnano una testimonianza di continuità con antichi gesti capaci di arrivare nella contemporaneità. Ed anche i macchinari attuali conservano una struttura massiccia, basamenti in ghisa, strutture metalliche, stampi in legno e in alluminio, a ricordare che questo mestiere è fatto di gesti precisi, di tempi lunghi, di attese e di rispetto per la materia che si trasforma.

Tutto parla di materia, di feltro, di stampi, di vapore, acqua, ed abilità. Benedetta, che è giovane e ricchissima di energia, si muove svelta tra i saloni della fabbrica e mi racconta storie, aneddoti, ricordi. Parliamo naturalmente del cappello, di questo accessorio di abbigliamento apparentemente desueto, segno distintivo di una cultura dei tempi passati, che pure continua ad essere uno dei simboli dell’eleganza.
È vero che i nostri tempi veloci, in cui si viaggia prevalentemente in auto e si vive molto in interno, hanno relegato il cappello in una dimensione un po’ di nicchia, forse oggetto simbolo di una cultura dandy un poco snob che pare lontana dalla nostra quotidianità.

Ma è anche vero che ciò che indossiamo e gli oggetti che scegliamo non hanno sempre e soltanto una loro ragion d’essere pratica, qualcosa dettato dalle esigenze o -al più- dalle mode del momento: esiste un forte valore simbolico dello stile che fa sì che capi di abbigliamento ed accessori, diventino elementi distintitivi di un linguaggio di espressione personale. E’ così -ad esempio- per scarpe, orologi, gioielli, cravatte, occhiali. Ed è certamente così per il cappello.

Benedetta mi racconta la cura, la manualità, i gesti che rendono unico ogni cappello. E mi parla del suo amore per il territorio, del legame stretto tra questa antica attività, i luoghi e la storia che lì, in quel posto magico permeato dai segni del tempo, pare davvero prendere una forma tangibile.

E allora non posso che pensare che il cappello rappresenti davvero qualcosa in grado di segnare un trait d’union tra passato e futuro, il simbolo di una storia capace di reinventarsi continuamente, attraverso i canoni della tradizione (fanno parte del gruppo industriale i marchi Barbisio, nome storico noto per l’eleganza ed il prestigio, e Bantam, che contrassegna i cappelli degli ufficiali degli alpini), ma anche esplorando la dimensione dell’innovazione dell’alta moda, con la collaborazione con prestigiosissime maisons. E forse tutto questo è possibile proprio lì, in quel luogo in cui il territorio si manifesta con forza, in cui la natura si prende i suoi spazi, in cui le storie delle persone e dell’ambiente sono intimamente connesse.
Enrico Neiretti

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1 Commento

1 Commento

  1. Pier Giovanni Malanotte

    26 Giugno 2023 at 12:47

    Ed io porto il cappello

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