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Guido De Girardi, seicento partite con la Cossatese

Sul campo non voleva mai perdere, ma le sconfitte lo hanno aiutato a crescere. Oggi coltiva l’orto e si gode la vita in famiglia

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I tifosi con qualche anno in più lo ricordano per la gioia che ha portato sugli spalti. Ha giocato 600 partite nella Cossatese degli anni d’oro, la squadra di calcio approdata in serie C nel 1972. Riservato come pochi, Guido De Girardi, classe 1945, oggi si racconta.

«La struttura della Cossatese era basata sulla serietà – spiega -. Se ci fosse stato qualcuno che non era allineato, probabilmente non avrebbe potuto giocare. Erano persone di una correttezza estrema, non soltanto con le parole. E nel calcio non sempre è così: spesso ci sono tante promesse e pochi fatti».

«Nel ricordare la mia vita, potremmo iniziare da papà Vittorino, che era di Feltre e aveva sposato mamma, Giovanna Menegaz. Io sono il piccolino di famiglia. Ho due sorelle più grandi, Antonia e Rita. Ho avuto la fortuna di poter vivere, avendo avuto un problema a un polmone. Mi ha salvato la penicillina. Ci siamo trasferiti a Mezzana Mortigliengo quando avevo 7 anni. Ho frequentato le medie in seminario a Biella. Papà era severo. Così, se già a casa l’educazione era rigida, in collegio lo era ancora di più. Il servizio militare per me è stato tempo sprecato. Ero abituato a osservare le regole. Sono poi andato a lavorare al Lanificio Tonella di Pray. Facevo ogni giorno da Mezzana a Strona a piedi, poi prendevo il pullman».

La svolta nella vita di De Girardi è arrivata nel 1962, con la nascita di una nuova società, il Parlamento. «Mi hanno preso e nel corso del campionato si è presentato Alfredo Aguggia, una persona squisita, che mi ha chiesto di passare alla Cossatese. L’anno successivo all’esordio, nel 1964, mi sono trovato in prima squadra, titolare, con l’allenatore Silvio Finotto. È stata una bella esperienza che mi ha permesso di raggiungere l’apice della felicità nel 1972, quando ho disputato il campionato in serie C, incontrando società che giocano in serie A». Intanto, nonostante la sua proverbiale discrezione, De Girardi, nel 1994, ha raggiunto i vertici della società ed è diventato presidente.

«Ho smesso di giocare nel 1981. Una delle mie ultime partite si è disputata a Trino e a darmi un passaggio in auto fino al campo di gioco era stato Ezio Menotti. Mi aveva chiesto di restare, ma io avevo preferito occuparmi della famiglia. Mio figlio Daniele, nato nel 1977, è affetto da sindrome di Down. Sono contento di aver avuto un ragazzo come lui, che mi ha dato delizia. Daniele mi ha scombussolato la vita, ma in positivo, mostrandomene i valori. Ad esempio, mi ha insegnato cosa vuol dire abbracciare davvero, che non è mettere le braccia al collo, ma stringere, far sentire i sentimenti».

Ritornando al calcio, De Girardi si considera con rammarico una delle ultime menti storiche di quegli anni, della Cossatese. Ci mostra con soddisfazione un articolo del 1970, a firma di Ezio Tamburelli, già mancato, che lo paragona a Meazza e a Boniperti, alludendo alle sue oltre 250 partite con la maglia azzurra. Al termine della sua carriera calcistica però le partite disputate sono state 600. «Oltre a giocare, ho sempre anche lavorato e allora, nel 1972, sono passato alla Modafil, come operaio. Azienda che mi ha permesso di utilizzare meglio il tempo per gli allenamenti, forse perché anche loro erano tifosi. Ho lasciato la ditta nel 1991, in qualità di responsabile magazziniere. Nel 1991 mi sono trasferito a Curino, in cui vivo isolato dal mondo e coltivo l’orto, a contatto con la natura. Faccio passeggiate nel bosco e vado a funghi. Sto bene e quest’anno abbiamo festeggiato, io e mia moglie Pierina, 50 anni di matrimonio». «Il calcio, se preso per il verso giusto ti fa crescere. Anch’io non volevo mai perdere le partite. Ho giocato con il cuore, dando tutto me stesso, anche negli allenamenti. La sconfitta brucia, ma serve per raggiungere altri traguardi. Le difficoltà vanno affrontate senza pensare al macigno che pesa su di noi, perché alla fine si rivela essere un sassolino. Non ho neanche mai giocato per soldi. All’inizio mi domandavo pure perché mi pagassero, tanto mi piaceva. Il gioco ha richiesto anche dei sacrifici: il lavoro al mattino dalle 6 alle 14 e l’allenamento nel pomeriggio, ma ne è valsa la pena».

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