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Angelo Corinno Granai, ex giocatore e allenatore della Cossatese

Classe 1946, militò nella Biellese, poi approdò in azzurro, dove esordì con sette vi zttorie consecutive

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Angelo Corinno Granai, ex giocatore e allenato della Cossatese. Classe 1946, ha giocato nella A.s. Cossatese per cinque campionati, dal 1964 al 1969, diventando per un breve periodo allenatore della squadra nel 1978.

Angelo Corinno Granai, ex giocatore e allenatore della Cossatese

«Prima di passare alla Cossatese sono stato uno dei ragazzi della Biellese e ancora prima avevo giocato a Ivrea – dice -. Mi muovevo un po’ in tutti i ruoli, soprattutto come difensore, stopper o centrocampista. Alla Cossatese sono stato due volte, la prima da giocatore, la seconda come giocatore e allenatore. Con un inizio di rilievo, sette vittorie consecutive senza gol avversari, e quattordici punti, poi sono stato esonerato e sono tornato in campo a giocare. È stata per me una delusione, perché gli obiettivi erano di fare un campionato tranquillo. Altrimenti è chiaro che non avrebbero affidato a me la squadra, non avendo mai allenato. Cossato, come si sa, aveva una tradizione importante nella sua categoria. Ero comunque riuscito a fare un’impresa notevole. L’anno successivo ho allenato in Seconda categoria a Romagnano, perché volevo dimenticare. Lì ce l’ho fatta e ho proseguito nel ruolo di allenatore. Mi piaceva».

Granai, lei ha sempre giocato da professionista?

«A quei tempi la serie C era semi-professionista – risponde -. A Cossato avevamo fatto due anni in Quarta serie. C’è poi stato il ritorno a Biella, ma sono sempre rimasto nel semi-professionismo per tutta la mia carriera. Sono stato poi ad Alba, a Borgosesia e in altre squadre».

Era un calcio diverso da quello che si gioca oggi?

«Ne parlo spesso con i miei nipoti. Oggi non serve neppure più calciare la palla. Va da sola. Ci sono tanti strumenti che un tempo non esistevano – e Corinno rivolge lo sguardo al terreno di gioco su cui ci troviamo, che è in erba sintetica -. Noi ci fasciavamo le caviglie con delle bende bianche perché altrimenti ci prendevamo le storte. Il campo era pieno di buche. Noi, come dicevo ai ragazzi, dovevamo copiare quello che facevano in serie A, senza spendere soldi. La cultura doveva essere quella di impegnarsi, di essere seri, di concentrarsi, che sono cose che non si comprano. Diciamo che tutti desideravamo fare qualcosa di più. Io, dico la verità, non mi sento di essere stato sottovalutato. Ho fatto quello che potevo per desiderio, per divertimento. Era un mix di pensieri che si devono provare per capirli. Era passione. L’anno scorso, alla bellezza di 76 anni, ho allenato il Gaglianico. Adesso so di essere “troppo giovane” per continuare, quindi ho smesso. C’è stato un periodo della vita, fra i 20 e i 40 anni, in cui tutto era lecito: ti sentivi bene ed eri forte. Poi, andando avanti, se ti chiamano ad allenare ti fanno un favore, ma se non ti chiamano, te ne fanno due. Mi sarebbe piaciuto continuare, ma è faticoso fisicamente e mentalmente».

Ci sono episodi che ricorda con soddisfazione?

«Ho avuto la fortuna, e lo dico con un po’ di presunzione, di aver in effetti vissuto situazioni che sono passate alla storia. Come nella partita con la Pro Vercelli, finita 4-4, in cui segnai un gol, e anche nella partita di ritorno, conclusa 2-2, quando ne feci un altro. Nello spareggio fra la Biellese e l’Omegna, che si giocava a Novara, invece avevamo vinto noi bianconeri grazie alla mia “manina”. Avevo tolto la palla con la mano all’avversario e l’avevo data a un giocatore della mia squadra, che aveva segnato. Con i mezzi di oggi, con la macchinetta che riprende tutto, mi avrebbero tagliato la mano».

È meritevole ricordare anche che la Cossatese vinse il campionato regionale battendo 2-0 la Castor al campo “Fila” proprio grazie a una doppietta di Granai. Ci sono altri aneddoti?

«Penso all’alluvione del 1968 – conclude -. Dovevamo andare a giocare a Vercelli contro la Pro e ci trovavamo a Cossato, ma i ponti erano tutti crollati. Posso inoltre ringraziare le società in cui sono stato. Tutti mi hanno rispettato per quello che valevo. Non ho rimpianti e sono contento. Quando ero allenatore, mi prendevano un po’ in giro, perché facevo il professionista là dove non costava. Ad esempio, quando si andava in campo a fare gli allenamenti, volevo che i giocatori avessero già le scarpe legate. Altrimenti voleva dire che non avevano voglia di giocare».
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