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Tutti a scuola di piemunteis

Tra le righe di Enrico Neiretti

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enrico neiretti

BIELLA – A me i dialetti piacciono molto. Mi piacciono tutte le parlate regionali e di certo il mio dialetto – il piemontese – fa parte del mio profilo culturale. E sono sicuro che per molti sia così.

Sono cresciuto sentendo parlare in dialetto intorno a me; quand’ero bambino e ragazzino gli adulti parlavano quasi tutti in piemontese tra di loro. Persino quelli che erano nati altrove cercavano di uniformarsi a quella parlata, spesso con risultati piuttosto forzati.

Però, quelle stesse persone che tra di loro comunicavano abitualmente in dialetto, nel lavoro, nelle relazioni sociali, persino nei rapporti coniugali – io ho sempre pensato che lì il dialetto fosse del tutto inadatto ad una comunicazione sentimentale profonda-, quando parlavano con i figli usavano quasi sempre l’italiano.

Era così a casa mia, dove i miei genitori passavano istantaneamente dal piemontese che usavano per dibattere tra di loro, all’italiano con cui si rivolgevano a noi figli; era così in moltissime altre case, dove l’uso dell’italiano con le nuove generazioni era un modo più o meno consapevole di emancipare i propri figli da una situazione di isolamento culturale e di spingerli ad abbracciare una visione più ampia, capace di superare i confini angusti del proprio luogo di nascita.

Credo non sia un caso se proprio a partire dalla generazione dei nati negli anni ’60 e ’70, quel progressivo superamento del dialetto come forma di comunicazione famigliare “primaria” abbia accompagnato un altro superamento importante, quello del limite della scuola dell’obbligo, facendo diventare normale e maggioritario un percorso scolastico più completo.

Ciononostante il dialetto è in qualche modo penetrato nella vita e nella stratificazione culturale di coloro che sono cresciuti in quella sorta di ibridazione linguistica: il dialetto come sottofondo, l’italiano nell’interazione personale.
Io so parlare bene il piemontese, lo trovo molto godibile da ascoltare, in qualche modo rappresenta la parte di me più spontanea, meno culturalmente mediata, diciamo pure meno riflessiva; le reazioni più dirette, quelle legate allo stupore, al divertimento, a volte alla rabbia, hanno spesso una loro espressione proprio in piemontese.

Alcuni aneddoti del passato si possono riferire soltanto in piemontese perché è in quel contesto che si sono svolti, certe espressioni buffe e leggere sono intraducibili in italiano, persino alcuni sfoghi rabbiosi, se espressi in dialetto, perdono aggressività e vengono stemperati in una vena più ironica e scanzonata.
Dunque non ho proprio nulla contro il dialetto, anzi, lo amo, lo uso, è parte della ramificazione varia e composita del mio profilo.

Ma il provvedimento approvato in Consiglio regionale del Piemonte, che definisce una serie di situazioni – a partire dai cartelli stradali (fortunatamente solo turistici grazie ad emendamento di buon senso) per arrivare alle scuole e al mondo culturale – nelle quali ci si propone di incentivare l’uso del dialetto piemontese, a me suona come un’iniziativa di retroguardia, grottesca, persino irrispettosa nei confronti della spontaneità del dialetto stesso.

Ecco, più che la tutela di una risorsa tradizionale mi pare una maldestra operazione identitaria che attiene più al folclore che a considerazioni razionali.
E mi viene subito da pensare alla scelta di evoluzione e di crescita che fecero invece quei genitori di parecchi decenni fa – pure abituati ad usare sempre il dialetto tra di loro – di parlare in italiano con i propri figli per dar loro un orizzonte più ampio che prevedeva come sbocco naturale una scuola fondata su un’idea di cultura universale.

E non posso fare a meno di trovare goffa e anacronistica questa pretesa di istituzionalizzare il dialetto.
E’ proprio una di quelle situazioni a cui mi verrebbe voglia di replicare usando qualche colorita e pugnace espressione in piemontese.
Ma non lo faro. Almeno non qui.

 

Enrico Neiretti

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