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Gli Sbiellati

Il viaggio in Italia si è fermato a Biella

Gli Sbiellati: una rubrica per tentare di guardarci allo specchio, e non piacerci

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Fonzarelli di provincia

BIELLA – Capita spesso, in queste righe, di ricorrere ai diversi piani temporali e di mischiarli per sostenere questo o quel ragionamento. Non accade mai – quasi mai – di ottenerne un effetto gratificante o, quantomeno, rassicurante. Certo, questa è rubrica che si arroga il diritto di puntare il dito verso il re quando è nudo, e quel re siamo noi.

Tutti noi che, per questioni genetiche o d’abitudine assunta dal lungo soggiornare, sbielliamo sempre un po’. Lo facciamo per sorriderci amaramente addosso, nella speranza davvero di renderci conto della nostra nudità. Stiamo vivendo un presente moscio, con poca prospettiva di futuro e la solita magniloquenza del passato.

Questo il succo, in molto estrema sintesi. Nell’intento di confutarmi da solo però, in preda a qualche esiguo rimordimento, ho cercato conforto nello sguardo esterno di chi aprì gli occhi sull’Italia intera: sagacemente, oggettivamente, onestamente, letterariamente. Perché credo anch’io che l’Italia di provincia si somigli un po’ tutta, anche se ognuna poi rivendica le sue peculiarità vestendo quel nudo che si ritrova addosso di malcelato orgoglio. Non per pudicizia, ma, nella sua ingenua cecità, convinta d’aver sempre indossato il vestito della festa.

Dal 1953 al 1956, lo scrittore veneto Guido Piovene girò l’Italia in lungo e in largo. Lo fece per “scrivere” una trasmissione radiofonica della Rai (fatevi un regalo e andatevi ad ascoltare questa puntata sul prezioso sito delle Teche Rai al link http://bit.ly/3KWH4zV), ché la televisione era ancora da venire e arrivò nel 1954. Nel 1957 “Viaggio in Italia” divenne anche libro: un tomo di 800 e fischia pagine che è stata, e resta, la miglior guida letteraria del nostro Paese; un testo che fornisce diverse chiavi di lettura del presente che ci riguarda più da vicino.

La sua miglior caratteristica è espressa da una frase che lo stesso Piovene riportò in un “postscriptum” apparso in calce alle riedizioni del volume: «Se viene tra le mani un giornale d’allora, e lo si guarda in fretta, può capitare di scambiarlo con quello uscito stamattina». Questo per dire che è l’Italia intera a fare provincia, e che non siamo mica poi così cambiati. E se per qualche dettaglio può essere persino un bene, per tutto il resto direi, e direbbe lui, anche di no. Quindi, più che prendere in mano il giornale di oggi, mi è venuta la voglia di riprendere in mano quel libro, scorrendolo veloce fino a pagina 195 dell’edizione Bompiani, alla voce “Varallo e Biella”.

In coda a un’affascinante analisi e racconto di come i nostri monti presentino un’infilata di santuari, in cui Oropa è descritta come «una vera città con grandi belle piazze interne barocche e in fondo una brutta basilica nuova», appare la prima e immediata descrizione di come la nostra città fosse «il più importante centro laniero italiano». Erano gli anni dell’immediato secondo dopoguerra, agli albori del decantato – e rimpianto – miracolo economico che in qualche modo cambiò faccia agli italiani, se non le loro attitudini. Difatti: «Biella mantiene, nonostante le industrie, la vernice del vecchio Piemonte provinciale. (…) Biella è un piccolo mondo chiuso, riservato e complesso; soltanto un piemontese potrebbe andarne a fondo e descriverlo».

In una sorta d’involontario paragone con Ivrea (di cui potrete leggere qualche pagina dopo il capitoletto su Biella), il confronto con la mentalità imprenditoriale eporediese, e di Adriano Olivetti nello specifico, è spietato: «la concezione dell’industria come un affare non soltanto privato, ma privato a tal punto che occorre tenere lontani lo sguardo e l’apprezzamento degli altri. È una concezione che non chiamerei privatistica, ma dialettale degli affari». Ecco svelata la causa del nostro atavico isolamento, difatti: «Lo stesso ceto industriale ne porta il danno. Infatti ne provengono l’astensionismo, la riluttanza a far diventare politiche l’abilità tecnica e la ricchezza, che perciò si traducono scarsamente in potere».

Se già allora Piovene, nelle sue conclusioni al viaggio, commentava come «La trasformazione sociale si accompagna in Italia con un abbassamento di cultura maggiore che negli altri Paesi di pari civiltà», si può comprendere meglio l’attuale stato delle cose. Il conte Oreste Rivetti, padrone della maggiore industria biellese di allora con 5mila operai, chiosava così a margine della curiosità dell’intervistatore: «Tutti dicono che c’è la crisi. Io cerco operai e non li trovo. Tutti oggi sono professori, avvocati, dottori. Questa è la disoccupazione. Troppo poco lavoro, questo sì, troppe ferie».

Vi ricorda qualcosa? Per poi, non pago, aggiungere: «Sono i clienti che devono venire da me. Cosa m’importa a me di avere trecento clienti? I miei sono tutti amici, li vedo al ristorante, a casa. Io il mio prodotto lo conosco. Se lo vogliono, bene; se no, lascino stare». Requiem aeternam.

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2 Commenti

1 Commento

  1. Rosoni Anna

    20 Aprile 2023 at 19:05

    Infatti siamo morti….. Ahah

  2. Maria Vittoria Coggiola

    20 Aprile 2023 at 19:12

    Che altro dire?
    Chapeau👏👏👏

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