Eventi & Cultura
Alla ricerca dellultima cura possibile sfidando la morte. Coraggio e amicizia in un incredibile viaggio nella foresta
Metti che un’amica ha sei mesi di vita, perché il cancro corre. Metti che questa amica non si vuole arrendere e, perso per perso, sceglie l’improbabile. O forse vuole solo arrivare in fondo senza cedere le armi, anche se il fondo è già lì che lo vedi, che quasi lo tocchi.
E allora metti che telefona a tre ragazze e che la sera dopo si trovano in quattro a prenotare un check-in.
Metti che un’amica ha sei mesi di vita, perché il cancro corre. Metti che questa amica non si vuole arrendere e, perso per perso, sceglie l’improbabile. O forse vuole solo arrivare in fondo senza cedere le armi, anche se il fondo è già lì che lo vedi, che quasi lo tocchi.
E allora metti che telefona a tre ragazze e che la sera dopo si trovano in quattro a prenotare un check-in.
Destinazione sciamano. Un guaritore, forse. O forse un pagliaccio che vive nel fitto della più impenetrabile delle foreste, al confine tra Brasile e Perù.
Due esperte di televisione e marketing, una psicologa e un’impiegata che si catapultano in un “mondo altro” (per geografia, anima e meraviglia) nel quale resteranno per settimane, prima perdendosi nel terrore dell’isolamento e poi, proprio in quello, ritrovandosi.
O trovandosi, forse.
E metti che non è un romanzo, ma una storia vera, di quelle che le cose vanno come possono, come devono. In faccia a tutti i lieto fine di popcorn e cellulosa.
«Non so dire che cosa davvero pensassimo quando abbiamo deciso di salire su quell’aereo, è successo tutto così in fretta – racconta Federica Garbolino, 47 anni, la psicologa autrice del libro che sabato 18 marzo ha presenteto il lavoro pubblicato da Edizioni Creativa alla Biblioteca Civica di Biella – Forse qualcuna di noi sperava nell’impossibile. Ma so che cosa penso ora, a distanza di anni. In fondo, l’abbiamo soltanto accompagnata, Lucia. Abbiamo costruito un rito collettivo, un rito di passaggio tra la vita e la morte, di quelli che nella nostra cultura non siamo più abituati a fare. Abbiamo trascorso tempo con lei, tanto tempo quanto non avremmo mai potuto dedicarle e dedicarci senza quel check-in, senza catapultarci al fondo misterioso del mondo. Da sole, sperdute in una foresta, nelle mani di uno sconosciuto guaritore peruviano».
Paradossalmente, la prosa asciutta di Garbolino, una prosa che non ha il tratto del mestiere, della professione di chi di letteratura ci vive, ma resta appesa tra il diario e il romanzo, fa scivolare via leggera una storia che avrebbe potuto essere raccontata con i toni del dramma, resa patetica da quel contenuto potente ed immenso che a tutti incute timore e il cui nome tutti si limitano a sussurrare soltanto: la morte.
E invece Federica racconta svelta del come la vita sappia affrontarla, la morte. A testa alta e persino sghignazzando. L’autrice getta in ribalta, con disinvoltura, anche i dietro le quinte tragicomici o comici davvero: lo sciamano e il suo “aiutante” le drogano con intrugli e non meglio precisati tabacchi, tirano sul prezzo, muovono esplicite avance sessuali tra il goffo e il peloso. In foresta capita di tutto: la ragazza malata si spezza anche un polso, ma decide di restare lo stesso a giocare la sua partita. Tutta.
Fino ai rigori.
Di notte, spesso stordite dagli allucinogeni, combattono incubi e scarafaggi, le paure nuove e quelle vecchie, ma sepolte dagli anni. Si avvicinano, si stringono, si conquistano in un’irripetibile “bolla” di fantastiche stranezze, di pensieri bui, di grasse risate e infaticabili speranze.
Dieci anni, forse più. Tanto, questa storia, è rimasta in un cassetto. Perché?
«Lucia, contro ogni previsione, ha vissuto ancora tre anni. Poi abbiamo cercato tutte di dimenticare, credo. Di non risvegliare il dolore. O almeno così ho fatto io. In seguito, ho cominciato a maneggiare e rimaneggiare quello che era un semplice diario. Non alla ricerca della perfezione stilistica. Rimettere in ordine quei tasselli di ricordi è stato un esercizio di memoria e di analisi. Divertente, ma anche difficile. Sempre col senno di poi, penso che sia stato anche un modo per continuare a tenere in vita Lucia».
C’è molto di lei, nel testo. Non solo una storia, ma anche la sua, di storia. Persino paragrafi che riguardano la sua famiglia.
«Appena prima di stampare la bozza definitiva, ho esitato. Ero quasi spaventata. Che cosa stavo facendo? Perché raccontare fatti tanto personali, per quanto romanzati e interpretati da personaggi con nomi diversi da quelli originali? Ho bloccato tutto per un po’. Poi ho deciso che dovevo mantenere la promessa fatta a Lucia di raccontare la sua storia, accettando di mettere in gioco anche me stessa. Non vorrei sembrare pedante, ma scrivere è stato anche terapeutico, per me. Quel viaggio è stato e resta una delle mie esperienze più forti, una pietra miliare della mia vita».
Nel testo, lei racconta molte cose. Ne scelga una, quella più importante.
«Credo sia impossibile, almeno per me. Probabilmente, la forza dell’amicizia, il coraggio di “esserci” e di vivere accanto alla paura di morire. Ma c’è il rovescio della medaglia: il cameratismo, la complicità, la gioia consapevole del fare qualcosa di matto, unico, irripetibile. Me lo faccia dire in una battuta: se fosse stato un titolo accettabile, avrei scelto “Quattro sciamannate e uno sciamano”».
Lucia, morirà. Il cancro la porterà via. Una storia già scritta un miliardo di volte. Ma “Quattro donne e uno sciamano” è una storia diversa. E’ la storia di come, dall’altra parte del mondo, in una delle tante e misteriose Macondo che ogni tanto sogniamo di sguincio, quattro amiche hanno, a loro modo, assecondato l’ineluttabile. Sbeffeggiandolo.
Anche all’ineluttabile si possono fare le pernacchie, ogni tanto. Arriverà lo stesso. Tanto vale spiazzarlo un po’.
Che magari, ogni tanto, in una qualche Macondo, quattro donne e uno sciamano gli strapperanno un sorriso, una carezza, un colpo d’ali. Addolcendolo quel poco che basta.
Ci sono infiniti modi, di raccontarsi la vita, la morte e l’amicizia.
Federica Garbolino racconta e si racconta il suo.
Perché tutti, alla fine, dovremo scegliere.
Il nostro modo.
Ted
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