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Biella

Il Piazzo perde i pezzi

Gli Sbiellati: una rubrica per tentare di guardarci allo specchio, e non piacerci

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BIELLA – Resta sempre qualcosa da dire, quando mancano le parole. E allora le si va a cercare senza sapere bene quali possono essere. Perché prima o poi s’avvera la necessità di raccontarci meglio, di definire il contorno di quello che siamo. Di mettere in chiaro, parola dopo parola, anche i gesti rimasti sospesi. Farne Epifania dell’accaduto, rimasto a sedimentare un ricordo che resta silente fino a quando ci tocca di scoprire dov’è e ci sale in gola all’improvviso.

Accade lungo i passi dell’abitudine, sotto a un cielo nascosto da lievi e scrostati porticati disposti intorno al centro di una piazza. Tra le pause di una chiacchiera da bar che il tempo concede, in un silenzio che resta appeso all’aria che gira gli angoli per soffiarlo via e lasciare la chiacchiera riprendere da sé e da dove eravamo rimasti. Ci rendiamo conto così che qualcosa manca, rispetto a quello che c’è ancora. Che qualcosa di nuovo c’è già e non sappiamo ancora bene cos’è: un chi è ancora incognito, un qualcuno da riconoscere prima di conoscerlo.

È così che il tempo somma le cose, quelle piccole e di significanza nascosta. Le somma fino al totale che fa, un giorno in cui magari hai voglia di pensarci su e un po’ meglio, buono per fare i conti in sospeso con le storie che siamo. Sono venuto da un paese appoggiato alla città, incantato da un borgo che in qualche modo gli assomiglia. Gli anni mi hanno fatto rimanere, a guardarlo a guardare a guardarmici dentro, fino a fare parte del paesaggio e del suo quotidiano presepio. Fuori rotta da ogni stella cometa che passa, microcosmo di prossimità posto al centro storico di una città con poca coscienza di sé.

Vivo al Piazzo, un posto ancora a misura d’uomo e di donna, confortato spesso dalla presenza di persone strane a dirsi. Giusto per ricominciare da dov’ero rimasto, in una di quelle chiacchiere sospese che faccio qui nella speranza che qualcuno m’ascolti. Un modo anche questo per essere grato a un posto che mi ha lasciato vivere: il sole e la pioggia, il tempo che passa e ci scrive addosso i giorni e gli attimi lasciati andare via. Il Piazzo è lo scampolo di città tessile in cui le fabbriche hanno smesso di esserlo da parecchio, per farsi ricovero e rifugio di vite che s’incontrano ancora.

Il Piazzo è piazza, luogo comune di cui la città dabbasso è orfana da sempre, chiusa com’è dentro sé stessa e un passato fordista, che ha sacrificato la socialità quotidiana sull’altare del qualcosa da fare che non sia tempo perso. Rimane intatto qui, il sapore di sapere chi c’è e di trovarcelo spesso di fronte. Per avere qualcosa da dire, per trovare quelle parole che andavamo cercando e chiudere finalmente quel cerchio dentro al quale restare.

Microcosmo, dicevamo. Così simile all’immaginario letterario di Stefano Benni da non farci nemmeno caso. Un po’ Bar Sport e un po’ Bar sotto il mare. Una strana Compagnia dei Celestini messa inconsapevolmente insieme da una pletora di poco spaventati, ma molto comici guerrieri. Un posto in cui la Grammatica di Dio è difficile da decifrare, tra chi viene e chi va, tra chi ci passa e chi ci resta e si muove al ritmo di un Blues in sedici.

Le Ballate invece no, non le canta più nessuno da quando la voce di Veronica s’è fatta silenzio. Perché in quest’azzardo che è la vita, anche il Piazzo piange. Ma lo fa per assonanza, respirando forte l’aria che non dimentica le note lievi e le voci roche. Come quella di Beppe il Cobra, d’intemperanza sofferta e imprevedibile prevedibilità, che manca ancora sentirla gridare forte il suo esserci. Come quella del Gioss, rimasta zitta in un attimo e divenuta già nostalgia. Il Piazzo perde pezzi, voci, rumori. Cuori che battevano al ritmo suo di quel blues.

Perde i pezzi, ma resta uguale. A ricordare senza lacrime, senza dimenticare tutte quelle persone strane a dirsi. Parti di sé che la morte porta altrove, ma lasciano un canto lieve e voci roche nella memoria e nell’aria. Soprattutto nei giorni di silenzio, di quando l’inverno ci chiude dentro e la piazza resta sola. E nei giorni di folla, nelle colazioni del dopomessa, nelle serate di cena sotto a un cielo di stelle. Quando sembra che ci siano proprio tutti e invece no.

 

LELE GHISIO (foto Paolo Martinez)

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