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Adunata Alpini Biella 2025 – IL MULO MECCANICO DELLA MOTO GUZZI
Ma quello a quattro zampe si rivelò insostituibile

Alla fine degli anni Cinquanta il Ministero della Difesa italiano diede vita a un programma di ammodernamento delle brigate alpine. In questo senso gli organi tecnici dell’Esercito richiesero alla Moto Guzzi di sviluppare un veicolo speciale per gli alpini. A quel tempo, l’unico “mezzo di trasporto” per le truppe alpine italiane era ancora il mulo. Il generale Ferruccio Garbari fu indicato come direttore del progetto e formulò numerosi requisiti che il veicolo avrebbe dovuto soddisfare: doveva trasportare 500 chilogrammi di carico in tutti i tipi di terreno, specie in zone montuose e su sentieri molto stretti.
Lo sviluppo dapprima fu affidato ad Antonio Micucci ed in seguito elaborato dall’ingegnere Teodoro Soldavini e Giulio Cesare Carcano con quest’ultimo che aveva appena realizzato un nuovo motore bicilindrico a V, per il quale la direzione di Moto Guzzi non vedeva alcuno sbocco pratico. C’erano due versioni, una da 500 cc e una da 650 cc pensata per la Fiat Nuova 500, ma la casa torinese si ritirò dal progetto. Carcano vide allora un’altra possibilità per impiegare il suo propulsore.
Le caratteristiche
Il “Mulo Meccanico” era una macchina molto speciale, con tre ruote motrici e la possibilità di variare il passo e la carreggiata. Il motore da 754 cc erogava appena 20 hp, a causa del basso rapporto di compressione, reso inevitabile dalla necessità tattica di consumare, al bisogno, benzina di scadente qualità. Tuttavia la coppia massima di 47 N·m era raggiunta già a 2400 giri. C’era un solo carburatore Weber da 26 mm e la bobina d’accensione era impermeabile. Il telaio era realizzato con tubi e travi di acciaio stampato. La sospensione posteriore consisteva in due bracci girder ammortizzati da blocchi in gomma. Sulla ruota anteriore era applicata una forcella telescopica monobraccio con molle elicoidali. Lo sterzo era attuato da un volante servito da ingranaggi conici. Il conducente stava su una sella motociclistica, ma tutti i comandi erano attuati da leve e pedali di tipo automobilistico. C’era un differenziale centrale con un dispositivo di blocco per prevenire l’impantanamento della ruota con minor aderenza. La trazione era distribuita al 20% sulla ruota anteriore e all’80% su quelle posteriori. La trazione posteriore era attuata da due giunti cardanici che raggiungevano le ruote in diagonale dal differenziale; quella anteriore attraverso un altro cardano che collegava il motore alla ruota attraverso lo sterzo. I freni a tamburo posteriori erano azionati idraulicamente, quello anteriore con un cavo Bowden. Dietro alle ruote posteriori c’erano rulli di tensione, ai quali si poteva collegare un cingolo. Il parafango anteriore lasciava spazio sufficiente per montare una catena da neve. L’Autoveicolo da Montagna deluse le aspettative tanto che durante la presentazione s’impianto clamorosamente e venne trainato via da un classico mulo.
Ma il mulo, quello animale, era insostituibile
Che sia un fatto vero o leggendario – la fallita prova della presentazione – finché si trattava di dislivelli frontali, il mulo meccanico era veramente in grado di affrontare pendenze molto ripide, ma lateralmente era facile il ribaltamento soprattutto per via delle tre ruote. Sui percorsi montani, bastava una curva troppo stretta o la presenza di massi per fermare il Mulo Meccanico, laddove il “mulo vero” avrebbe proseguito imperterrito. Anche per questo, la produzione del motocarro in questione terminò già nel 1963. Secondo stime non ufficiali i “muli meccanici” realizzati furono appena circa 200.
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