Attualità
“Vorremmo una casa popolare, ma non ce la danno”
Ma chi sono gli abitanti del campo nomadi di Biella? Tra pregiudizi e suggestioni, molti ancora non conoscono da vicino questa realtà. Loro stessi, si autodefiniscono come “sinti piemontesi”. Nessuno di loro parla lingue lontane ed incomprensibili. Tutti parlano l’italiano, o meglio, il dialetto piemontese.
Ma chi sono gli abitanti del campo nomadi di Biella? Tra pregiudizi e suggestioni, molti ancora non conoscono da vicino questa realtà. Loro stessi, si autodefiniscono come “sinti piemontesi”.
Nessuno di loro parla lingue lontane ed incomprensibili. Tutti parlano l’italiano, o meglio, il dialetto piemontese. Si ritengono una grande famiglia, di cui molti sono parenti, anche se ognuno vive per conto proprio. Nessuna gerarchia e nessuna tradizione diversa da quella degli altri biellesi. La sensazione è quella di un normalissimo quartiere cittadino. Ida Gugliermotti, 65 anni, racconta dei tanti luoghi comuni che è sempre stata costretta a subire. «Siamo persone normalissime – racconta – come tutti gli altri biellesi. I miei genitori abitavano a Vercelli, poi ci siamo trasferiti qui. Le nostre origini sono italianissime, forse qualcuno ha delle discendenze francesi, ma nulla di più. Solo che ci continuano ad etichettare come delinquenti. Mio figlio aveva frequentato un sacco di corsi, e aveva preso alcune qualifiche nel settore della panetteria, ma nulla da fare. Nessuno lo ha voluto, perché basta leggere l’indirizzo e tutti capiscono». Anche Andrea Bianchi, 67 anni, ha passato una vita intera da “nomade”. Nonostante tutti i suoi anni, è deciso nel dire che non ha mai visto delinquenza nella sua comunità. «Sfido chiunque – spiega – a dire di aver mai visto passare un grammo di droga da queste parti, o se i nostri figli siano mai stati obbligati all’accattonaggio. Anzi, sono tutti battezzati e cresimati».
Il lavoro però, rimane un traguardo troppo difficile da raggiungere. Valentina, 18 anni appena, è già sconsolata: «Ho studiato per diventare parrucchiera, ma non mi vuole assumere nessuno. Siamo un po’ tutti in questa situazione, la gente fa fatica ad accettarci. Forse i vicini qui intorno, conoscendoci da vicino, sono gli unici che ci accettano davvero».
I bambini vengono mandati regolarmente a scuola e non hanno nemmeno bisogno di integrarsi. La lingua, la religione, l’educazione, sono le stesse di tutti gli altri. E se il lavoro manca, ci si arrangia. «Trasformiamo soprattutto il ferro – continua Ida – e lo commerciamo qui in zona. Noi donne, in particolare, produciamo oggetti artigianali, come scope e ricami. Ma questo non basta. Perché oltre a guadagnare poco, non siamo aiutati da nessuno. Abbiamo fatto diverse domande per le case popolari, e non ce ne hanno mai assegnata nessuna. Per non parlare degli alimenti. Ci è stato detto che viviamo bene e che non ne abbiamo bisogno».
Poi, quando si parla di “rom”, anche loro arricciano il naso. «Hanno provato a mandarceli qualche anno fa – dice Debora, 37 anni -, ma non li abbiamo voluti. Tra loro ci saranno anche brave persone, ma non volevamo rischiare che facessero del male ai nostri figli o li portassero sulla cattiva strada». Poi si lascia a una risata: «Qui sono tutti juventini e interisti, non andremmo sicuramente d’accordo!».
M. C.
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