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Un ricordo costretto a sanguinare

BIELLA – In questi giorni d’agonia, seduti al bar della rabbia che ci portiamo dentro e che a volte è meglio dire, ci alziamo giusto per prendere la rincorsa. In questi giorni di mezzo, tra un 24 febbraio e un 18 marzo, i giorni dell’agonia dell’Augusto, massacrato di botte in centro città una notte di 19 anni fa, prendiamo la rincorsa per la cifra tonda che sarà il prossimo anniversario. Perché si sa che le cifre tonde fanno gola ai celebranti d’ogni rito, con la faccia di circostanza pronta all’uso per poi tornare a dimenticare e inaugurare altri anniversari della memoria. Quasi vent’anni anni senza l’Augusto, che nel frattempo non è diventato né santo né martire, tantomeno un dio.
E non vorremmo che lo sforzo di memoria collettiva, che parte della città ha messo in atto, si risolvesse nel suo aspetto mitopoietico. Augusto Festa Bianchet, colui che a Biella meglio incarnava lo stereotipo del clochard romantico, è morto 19 anni fa sotto agli occhi di questa città. Una città che non ha saputo difenderlo. Che forse non ha voluto difenderlo.
Quello dell’Augusto è un lutto non elaborato, è un tentativo di rimozione costantemente in atto. E le ricorrenze, oltre a riempire l’aria di parole inutili, servono a ridare vita alle immagini, ai volti e agli errori di una comunità. Servono a rimuovere la rimozione. Non fraintendiamoci: con “non ha saputo difenderlo”, non intendiamo sollevare un problema di sicurezza. Intendiamo sollevare il velo d’ipocrisia che avvolge una cittadina di provincia come tante, che si crede isola felice anche quando i vermi di questa ipocrisia la stanno divorando dall’interno, dalle interiora.
Ancora non so se l’anno prossimo ci saranno lacrime e parole al vento, magari necessarie e magari no. Lo saranno se diverranno consapevolezza non dell’altrui accusa o dimenticanza, ma della propria indifferenza. Di quella che ognuno di noi si porta a casa la sera per poi lasciare il mondo chiuso fuori, così come chiuso fuori restava l’Augusto. La nostra è una città che ha sempre nascosto dietro all’alibi della discrezione il proprio cinismo, l’estremo individualismo, la sufficienza di sé, la totale autoreferenzialità che ancor oggi così bene si esprime. Si esprime negli atti, nei fatti, nel tempo, negli uomini e, infine, nel suo inevitabile isolamento. Geografico, infrastrutturale, umano. È il frutto del patetico tentativo, esercitato in passato, di crederci i meglio e di farcela da soli, sempre e comunque. Spazzando la polvere delle nostre fragilità sotto al tappeto, nascondendo l’imbarazzo, ostentando il fastidio e la sufficienza.
Siamo la capitale decaduta di un impero mai nato, che ci siamo immaginati in pochi e male. Siamo una comunità che fatica a includere, e al limite tollera e coccola gli Augusto che si ritrova come fossero un prodotto del folklore locale. Di eroi dell’emarginazione ne abbiamo anche oggi, nascosti da quattro pareti e senza lunghe barbe, e con meno appeal. Abbiamo anche chi, con abnegazione, se ne cura nell’ombra. In questi anni altri senzatetto dalla vita posticcia sono morti di quello che gli mancava: di una mano tesa, di un conforto, di una comunità vera. A loro sono solo mancati i riflettori di una morte violenta e una presenza irrinunciabile come quella dell’Augusto. Questa città non ha ammazzato solo Augusto Festa Bianchet.
Riflettendo sull’assassinio dell’Augusto, ci è toccato di farlo anche sul concetto di colpa collettiva. Non vi è dubbio che la città è colpevole. Lo è, innanzitutto, perché i colpevoli di un atto così vile non sono mai stati identificati. Lo è nei suoi silenzi, nelle sue omissioni. Lo è perché a segnalare i Portici Augusto Festa Bianchet è rimasta una piccola lapide sbiadita, in cui si fatica a leggere quel “barbaramente ucciso”. Quasi lo si volesse dimenticare e far dimenticare. Quel “barbaramente” pesa sulla coscienza collettiva. Su quella di chi non tollerava un barbone sotto casa e in centro città, che, si sa, i barboni sono pensati per le periferie. Su quella di chi ne tollerava la presenza e basta. Come su quella di chi è dispiaciuto che la cartolina di Biella sia priva ora di un elemento umano a cui mancava solo l’organetto per essere protagonista d’una fiaba. Siamo in troppi ad avere la coscienza sporca. Che ricordare non ci serva solo a non dimenticare, ma anche un po’ a cambiare. Da come siamo stati e da come siamo. Che non è poi tutto ‘sto granché. E la cosa più triste è che nemmeno quest’anno ho trovato parole nuove, perché le vecchie sono le stesse che ho scritto adesso. È un ricordo costretto a sanguinare.
Lele Ghisio
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