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Terza laurea a 94 anni: “Tante difficoltà, ma mai pensato di mollare”

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benito rimini

Benito Rimini, classe 1926, commercialista molto noto a Biella ed ex insegnante di Economia aziendale negli istituti superiori, all’alba dei 94 anni ha conseguito la sua terza laurea.

Esperienze intense caratterizzano la sua vita, come quella relativa alla guerra e alla prigionia ad Altamura, in provincia di Bari. All’epoca, anche se non aveva conseguito il diploma di maturità, dimostrava già promettenti doti intellettive e comunicative, le stesse che gli hanno poi permesso di recuperare da autodidatta gli anni persi e di raggiungere soddisfazioni e traguardi significativi; l’ultimo dei quali è stata la terza laurea: il coronamento di un percorso brillante, portato avanti “non senza fatica”.

Curiosità insaziabile, ma anche tanta dedizione e saggezza: è questo mix di elementi che gli ha permesso di continuare a studiare e di non arenarsi mai, neppure di fronte all’ipertensione e una forma di maculopatia, una malattia che colpisce la macula, ovvero la porzione di tessuto posizionata al centro della retina e che comporta un calo visivo, rendendo difficoltosa la lettura.

Quali sono state le maggiori difficoltà che ha riscontato durante questo suo ultimo percorso universitario? Ha mai pensato di mollare?
«No, non ho mai pensato di mollare. Difficoltà ne ho incontrate, soprattutto per via della vastità dei programmi; per esempio, l’ultimo esame che ho dato prevedeva lo studio di sette libri e di alcuni autori non avevo una conoscenza preliminare. Per quanto riguarda, invece, i quattro esami pilastri del corso, non ho avuto particolari problemi perché già avevo studiato per diletto gran parte della storia della filosofia. La filosofia è stata da sempre una costante nella mia vita, tant’è che nella prefazione della mia tesi sottolineo proprio questa mia predisposizione per le materie umanistiche, nonostante io mi sia diplomato in ragioneria».

Com’è cambiato, nel corso degli anni, il suo approccio nei confronti dello studio?
«Mi sono sempre approcciato con grande passione ed entusiasmo poiché ho sempre avuto un desiderio insaziabile di conoscenza, però quando ho preso la prima laurea ero meno esigente; tant’è che non ero uscito con il massimo dei voti, risultato che sono invece riuscito a conseguire per le ultime due lauree».

Com’erano scanditi i suoi giorni da studente?
«Le mie giornate erano incentrate sullo studio: iniziavo alle 10 di mattino e dopo una piccola pausa riprendevo fino alle 20, però non ero mai sazio: chiedevo a mio figlio di comprarmi altri libri e li leggevo alla sera. Ogni tanto facevo qualche pausa e per stimolare la circolazione passeggiavo lungo il corridoio e le stanze della mia vasta casa».

Entrando nel merito, quali sono stati i filosofi che l’hanno coinvolta maggiormente?
«Di particolare ispirazione e interesse sono stati per me due grandi filosofi che sono in realtà molto distanti fra loro, ossia Heidegger e Wittgenstein. Di quest’ultimo ricordo a memoria le sette proposizioni del Trattato logico filosofico, testo a cui sono particolarmente legato. Di Heidegger, invece, trovo rilevante la complessa questione relativa alla ricerca dell’essere e la sua aspra critica nei confronti della filosofia tradizionale per aver confuso l’essere con l’ente. Inizialmente Heidegger è convinto di poter scoprire l’essere, ma successivamente si rende conto che è l’essere che si svela all’uomo attraverso il linguaggio, in particolare quello della poesia. Il linguaggio istituisce l’essere e la poesia è la forma di linguaggio suprema».

Lei conviene con Heidegger su quest’ultimo punto? Crede anche lei che la poesia sia la più alta forma di espressione del linguaggio?
«Sì, perché la poesia più che sollecitare la ragione sollecita l’emotività, che è il punto di partenza per l’uomo. Noi non siamo pura ragione, abbiamo anche delle tonalità emotive che la poesia ravviva. Tutte le forme artistiche, non solo la poesia, anche se Heidegger insiste particolarmente su quest’ultima, avvicinano l’ente all’essere. Nella mia tesi ho citato un quadro di Van Gogh intitolato Le scarpe, conservato in un museo di Amsterdam. Le scarpe in questione vengono considerate da Heidegger come il mezzo che la contadina usa per il suo lavoro nei campi. Per il filosofo tedesco, Van Gogh estrae le scarpe dal loro mondo, nel quale hanno unicamente un valore d’uso, e le riporta nell’opera d’arte come testimoni di quel mondo: le scarpe da strumento divengono disvelatrici del mondo contadino, portatori della sua essenza e verità; rappresentano l’emblema della fatica, del perorare nonostante tutte le difficoltà, nell’attesa angosciosa della morte. A tal proposito la seconda poesia che ho scritto si intitola proprio Vita grama e riguarda, per l’appunto, le condizioni della vita umana; la prima, invece, titolata Pallanza l’ho scritta nel periodo in cui mio figlio aveva l’esame di maturità. Queste due poesie sono state pubblicate, ma quella che mi fa più commuovere è quella che ho scritto il giorno in cui ho perso mia moglie quattro anni fa. Quest’ultima si intitola Ti ho visto morire poiché ho assistito fino alla fine alla sua agonia; al momento non ho intenzione di pubblicarla perché è un qualcosa di molto personale, più avanti si vedrà. Per concludere aggiungo che spiegare cos’è l’essere è impresa ardua; Sant’Agostino diceva “io so che cos’è il tempo, ma se uno me lo chiede non lo so più”. Allo stesso modo io so che cos’è l’essere, l’ho compreso, ma non so spiegarlo. Bisogna accontentarsi umilmente di afferrare quello che può essere afferrato. D’altronde la filosofia è una ricerca continua e mai conclusiva».

Sofia Parola

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