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«Siamo vecchi e allora? Impariamo a invecchiare»

Il dottor Adriano Guala, 84 anni, è stato primario di Geriatria all’ospedale di Biella. In pensione dal 2006, racconta di sé e della vita

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A raccontarsi è il dottor Adriano Guala, 84 anni, che è stato primario di Geriatria all’ospedale. In pensione dal 2006, oggi è vicepresidente dell’Associazione onlus “Amici dell’Ospedale di Biella”.

«Ai miei tempi si cominciava a parlare di geriatria come di una specialità autonoma che si occupava di vecchi, mettendoli al centro dell’attenzione – spiega -. Figure che tendenzialmente venivano giustificate dicendo “ma tanto sono vecchi”. Persino l’Istat ci considerava vecchi a 65 anni. Oggi, forse a 75 o oltre.

Negli anni fra le due guerre voleva addirittura dire essere consumati. Ci si nutriva di meno e non bene. Si cominciava a lavorare nei campi già da bambini e nelle fabbriche si entrava a 14 anni. Era una vita d’usura. Ricordo mio nonno Federico, che chiamavamo Ricco, e lavorava al Lanificio Cartotti che si trovava lungo la strada per Vallemosso, oltre la Vulp – località Volpe – e ci andava a piedi. Quando tornava a casa doveva badare alla campagna, alle mucche. Le donne già a 50 anni si vestivano di scuro, con i capelli raccolti a crocchia sul dietro. Erano già socialmente in pensione. Non curavano il corpo. Attenuare la profondità delle rughe con una crema avrebbe fatto ridere. La loro attività sociale si svolgeva alla domenica pomeriggio. Voleva dire recarsi a far visita alla sorella, o alla figlia, mentre il marito andava a fare una partita a tressette e a bere un bicchiere di vino».

Dal Dopoguerra la situazione iniziava a cambiare, ma era ancora dura. «Mio papà Italo faceva dalle 6 alle 2 al Lanificio Gallo. Quando tornava a casa, mangiava un boccone e poi, per mezz’ora, metteva la testa fra le braccia, appoggiandosi al tavolo per riposare, dopo andava a lavorare la terra. Quando si è ammalata la nonna Ermenegilda, per tutti la Gilda, toccava a papà andare a mungere le vacche al mattino, alle quattro e mezza, prima di andare al lavoro».

«I miei genitori hanno sempre lavorato per migliorare la condizione del figlio, di me. Sono stati i primi operai di Cossato a mandare il figlio alle scuole medie e poi al liceo, che era la premessa per l’università. La gente, di mio papà, diceva: “al Guala a l’à muntase la testa“. Sono stato il primo figlio di operai in città a laurearsi. Probabilmente c’era l’ascensore sociale. Erano anni in cui la fatica non veniva considerata, si lavorava “feste e fra”, per intendere sempre. Non avevano molto soddisfazioni e gli acciacchi erano considerati normali. Andare in casa di riposo era uno stigma, era al ricovero, non aveva una connotazione positiva».

«Oggi invece abbiamo la vecchiaia e la vecchiaia ammalata. Le prestazioni chiaramente cambiano. Dopo un’ora trascorsa a rinvasare verbene mi sento stanco, ma è normale. È per la mia età».

L’assetto della nostra società oggi è diverso. La famiglia è composta da un nucleo monoparentale. C’è una salvaguardia dell’anziano e il vivere da soli, non sempre vuol dire solitudine. Tanti si dedicano al volontariato. «Purtroppo diamo ancora alla parola vecchio una connotazione negativa, perché ci rifiutiamo di essere vecchi. Noto però che si sta andando verso l’accettazione. Bisogna riconoscere che nella persona ci sono dei cambiamenti, quasi nessuno in meglio. “Sono vecchio” bisogna dirlo con un certo spirito di rivendicazione. “Mi piaccio così. Sono vecchio, e allora?”. Viviamo hic et nunc, qui e ora. E poi non rimescoliamo continuamente la situazione della nostra artrosi, della nostra digestione prolungata, smettiamo di sottolineare con quale lentezza facciamo le cose».

«Ho provato una certa soddisfazione nel sentire un collega che mi ha detto di stare bene, ma che a 90 anni, certo, stava meglio. Oggi ne ha 94. Ogni anno si è un po’ diversi, ma non facciamone una catastrofe. Non facciamo paragoni. Cerchiamo di vivere il presente, l’unico che esiste. Manteniamoci impegnati, creiamo stimoli. È essenziale».

«La mia è la generazione più fortunata dalla genesi in poi. Non ha vissuto nessuna guerra, ha guardato soltanto alla propria pancia e all’ombelico. La penuria vissuta in precedenza, ha fatto desiderare beni materiali. Oggi viviamo un periodo di stallo, le cose non vanno bene. Abbiamo dimenticato che ci sono dei valori fondanti, spirituali, a cui invece potremmo guardare».

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