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Senza presidi di emergenza siamo vulnerabili

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Dopo la tempesta del coronavirus, per altro non del tutto sopita, da più parti sento parlare di una riorganizzazione della Sanità pubblica italiana. Sia con l’obiettivo di far sì che altre eventuali emergenze non ci colgano in assoluto affanno, come avvenuto con il Covid 19, sia alla luce della disfatta del sistema sanitario lombardo, presentato per anni come un’eccellenza assoluta dopo una serie di tagli sconsiderati di servizi e posti letto, a vantaggio del comparto privato. Una politica, quella lombarda, che ha attecchito da tempo anche in buona parte del Piemonte e nel Biellese, ove negli anni si è proceduto ad un progressivo ridimensionamento delle strutture sanitarie, sino al nuovo ospedale di Biella, inizialmente previsto per accogliere 800 posti letto, successivamente dimezzati ad opere in corso. L’aggressione del coronavirus ha indicato, con estrema chiarezza, che ciò che veramente manca nel nostro sistema sanitario è la previsione dell’emergenza, cioè la capacità di disporre di spazi, strutture e personale destinati a far fronte ad un evento davvero straordinario.

Se i presidi di emergenza come il Pronto Soccorso accusano spesso difficoltà anche in tempi ordinari, è evidente che non sono assolutamente in grado di fare fronte alla straordinarietà di eventi come una pandemia. Ma probabilmente si troverebbero in ginocchio anche al cospetto di un evento sismico o comunque di un fatto che possa provocare tanti infortuni contemporaneamente. Ecco dunque uno dei fronti (non certamente l’unico) dal quale fare partire un progetto di riorganizzazione della sanità pubblica: una rete adeguata di Pronto Soccorso, facendo in modo che a farsene carico non sia il solo ospedale, bensì vengano rivalutate quelle strutture territoriali che, poco alla volta, negli anni, sono state ridimensionate, talvolta sino a provocarne l’estinzione (per rimanere sul territorio, penso alle vecchie strutture di Trivero e d Bioglio).
Come dovrebbero essere attivati o, laddove già esistenti, rinforzati, quei piccoli ambulatori di prossimità che in caso di pandemia potrebbero rivelarsi preziosi centri di valutazione e di prognosi attraverso l’utilizzo di strumenti di verifica rapida (per esempio i tamponi o i prelievi). Potrebbe essere predisposta una rete di personale medico ed infermieristico collocatosi a riposo, ma ancora in grado di mettere in campo esperienza e professionalità in caso di necessità straordinarie (per quelle ordinarie invece non sarebbe male sospendere per qualche anno il “numero chiuso” nelle Facoltà di Medicina). Insomma, sono innumerevoli i passi da compiere per non farci trovare spiazzati da altre possibili emergenze sanitarie. I grandi presidi superspecializzati che la Lombardia ha “regalato” in così tanta parte al comparto privato, sono indubbiamente necessari. Ma un’emergenza, almeno nelle fasi immediate, non la si affronta nei centri superspecializzati, ma in quei presidi di emergenza che (domandiamoci il perché), il comparto privato ha sempre preferito lasciare alla sanità pubblica.

Giorgio Pezzana

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