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Oggi che cognome mi metto?

Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio

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Fonzarelli di provincia

Solo per questioni di calendario, ma in mancanza di tempestività tocca fare l’eco alla Festa della donna. Che poi per certe donne, e pure tante, non è tutta ‘sta gran festa. A loro va la migliore nostra intenzione, almeno quella che si eleva sopra la retorica del giallo mimosa. Vero è che, come ha giustamente osservato un amico: «È molto difficile per un uomo scrivere qualcosa di intelligente il giorno della Festa della donna». Molto meglio chiamarla come si deve: Giornata internazionale dei diritti delle donne, e su quelli ragionare.

A mimose appassite possiamo perderci nel parlarne tentando di evitare la retorica festaiola che di solito accompagna l’otto marzo: l’ottomarzismo. Ogni anno è tutto uno spendersi e spandersi di belle parole, di prese di coscienza, di sorrisi a comando e mazzi di fiori gialli uguali a quelli dell’anno prima. Che a ogni giro di sole ci si ritrovi al punto di partenza è avvilente. Sorridiamo comunque alla primavera incipiente, che anche quella è donna, come la rinascita e la vita.

Intanto in Iran giovani donne muoiono, solo per volerlo essere davvero. Così, giusto per citare un esempio di quelli buoni a farci sentire in colpa – a ragione – mentre chissà quanti altri ci restano ignoti. Anche dietro la porta dei vicini di casa, a volte. Si sa che le abitudini sono dure a morire e spesso si travestono da tradizione, ma, a occhio, almeno sembrano sparite dalla circolazione le notti di bagordi passate a strappare le mutande a qualche palestrato stripman da parte di orde di femmine infoiate, convinte che sia liberatorio toccare il fondo come fin troppo spesso fanno gli uomini.

Forse oggi si ragiona meglio su cosa si debba fare per avere un mondo a misura, anche, di donna. Solo non vorremmo che, per paura di volare, le donne cominciassero a comportarsi da uomini, trascinando con sé il cromosoma dell’errore e dell’arroganza. La storia della politica contemporanea ci ha lasciato memoria di alcune: Margaret Thatcher, Indira Gandhi, Golda Meir. Tre primi ministri donna che si sentivano in dovere di comportarsi da uomo; un paradosso certificato anche da chi, nel caso dell’israeliana Golda Meir per esempio, la definiva come “il miglior uomo al governo”.

Mi sono un po’ lasciato andare, lo riconosco. Ma è un tema che mi appassiona. Per tornare a parlare un po’ di noi, lasciando riposare i massimi sistemi e aprendo meglio l’obiettivo sulla vita di provincia, c’è una questione femminile sulla quale m’interrogo da tempo: capita spesso di avere a che fare, o comunque di accorgersene dell’esistenza dalle cronache locali e con un certo stupore, con una tipologia di donna un poco strana e poco comprensibile, in senso figurato: quella che si presenta socialmente con il cognome del marito.

E in città le cognominate mi sono sembrate parecchie, per lo più allocate socialmente in quella che un tempo mica lontano veniva definita la “Biella-bene”, in genere distribuite tra fondazioni e club di servizio, il che, al di là del senso figurato, risulta molto comprensibile e un poco triste. Comprensibile nell’ostentazione a medaglietta e triste per la sensazione che dà di donne che abdicano a se stesse, a cui non basta l’essere introdotte agli ambienti che contano ma desiderano essere riconosciute come altro da sé. Mi ha sempre dato l’idea di donne che fanno male alle donne.

Se vogliamo possiamo stare qui a spendere migliaia di caratteri sulle radici storiche di questo fenomeno, ma il succo è sempre stato il concetto proprietario dell’uomo sulla donna. Certo è anche questione di abiti culturali differenti, in Stati Uniti e Gran Bretagna è consuetudine ancora in voga per esempio (Michelle Obama, Hillary Clinton). Però, almeno nelle poche cose che ci vedono all’avanguardia ci sta la legislazione in proposito: dagli anni ’70 del secolo scorso, probabilmente sull’onda sessantottina e femminista di quel tempo, la legge definì che la moglie, se vuole, può socialmente utilizzare il cognome del marito. Ma per quanto riguarda la sua identità formale no: sui documenti risulterà sempre il suo cognome d’origine.

Nessun obbligo e nessun certificato di proprietà, quindi. Resta, per alcune, l’ostentazione della conquistata posizione sociale attraverso il matrimonio: un concetto piuttosto medievale, mi si permetta. Per le sfumature qui non c’è tempo: a malapena riusciamo, con queste righe, a riflettere sul bianco o nero. E un po’ me ne dolgo, ma quello che accade, e non succede solo in provincia ma è in provincia che il suo significato è pregnante, è che siano queste donne a definire il ruolo sociale che assumono e non il ruolo stesso a definirle. Quello non è abbastanza, e loro non bastano a se stesse.

Il rischio che ogni anno ci assumiamo con questa festa appuntata sul calendario è fare del “pinkwashing”. Definizione felice e à la page, ma buona solo a sdoganare la solita ipocrisia.

Lele Ghisio

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