Attualità
Nemo propheta in patria sua
Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio
La provincia si definisce da sé per sottrazione: più per quello che non c’è che per quello che c’è. Più per quello che vorrebbe avere che per quello che ha. La provincia è il luogo fisico da cui guardare verso il fuori, in cui una sorta di presbiopia dell’animo permette di vedere meglio il lontano e sfocato di molto il vicino. La provincia mette in inconsapevole discussione la prossimità del talento, disposta invece all’accoglienza incondizionata di quello foresto.
Materia più per psicologi dalla professionale pazienza, piuttosto che da scrivani flâneur del costume locale ben felici di aver altro a cui pensare. Indagare quindi sui perché e sui percome di quest’attitudine è noia profonda, oltre che esercizio sterile, vista la generale indisposizione al cambiamento delle cose, figuriamoci al cambiamento del sé.
Del resto, pure Gesù Cristo si lasciò sfuggire a denti stretti un “nemo propheta acceptus est in patria sua”, alterato dal fatto che avrebbe voluto uscire dal cliché nazarettiano che lo voleva sempre e solo figlio di falegname e non anche figlio di Dio. Un’ambizione considerata eccessiva dai suoi concittadini, e difatti si è visto come è andata a finire.
Funziona un po’ così, questa città: poco incline a coltivare e cullare talenti in seno, tanto per restare in tema evangelico, quanto ben disposta a rivendicarne le origini quando questi hanno avuto modo di svilupparlo altrove, quel talento. Non sono solo i cervelli a fuggire, che spesso lo fanno per necessità: il talento lo fa per disperazione.
In settimana è toccato ad Alberto Barbera, direttore della Mostra del cinema di Venezia d’origine biellese, essere premiato dal solito club di servizio. Un premio tutto meritato, per carità, ma che arriva dopo una cinquantina d’anni che se n’è andato altrove per veder riconosciuta la sua professionalità. Si dirà che i tempi sono cambiati, infatti pensate un po’ che futuro poteva avere qui in città chi allora si occupava di cinema. Il minimo che gli potesse capitare era che ogni volta gli chiedessero, dopo aver spiegato di cosa si occupava, “No, va beh. Ma ad travaj quêt fè?”.
Ora seleziona film per gli Oscar e contribuisce a decidere cosa vedremo in sala o dal divano di casa, lui in smoking e noi in ciabatte. Lui fa le foto con Monica Bellucci e voi lo implorate di farne una con lui. Pensate invece cosa accadrebbe adesso: più o meno la stessa cosa. Poteri dell’immutabilità della vita in provincia, a cui dovrebbero dare un David di Donatello per la perseveranza fine a se stessa.
“Per rappresentare il nome di Biella in Italia e nel mondo” si spingono ad affermare i soliti noti notabili, quando in realtà lui ha ben rappresentato se stesso e la sua passione, e con ragione. Lo scarto sarebbe averne cura dei talenti. Allevarli e coccolarli, crescerli in un ambiente protetto affinché davvero possano essere espressione di questo territorio e non appartenervi soltanto anagraficamente.
Viene facile citare Aiazzone, tanto osteggiato da vivo quanto commemorato da morto. Lui, che con un’intuizione commercialmente geniale portava in città più fedeli del Santuario di Oropa. I talenti bisogna saperli ri-conoscere e supportarli, non premiarli ex post. Perché altrimenti non è più un premio al talento, ma alla fama. Con un’insana voglia, da parte nostra, di brillare di una patetica luce riflessa. Fa un po’ mercato dell’arte, di quando le quotazioni di un’artista spiccano il volo dopo la sua morte. E anche qui di esempi locali ne avremmo una lista.
Dopo è solo rimpianto, appropriazione indebita. Tant’è che, nel caso, credo sia difficile provare un senso di gratitudine: quel che resta è personale amarcord, giusto per restare nell’ambito cinematografico. Una felliniana riappropriazione delle radici da parte dell’uno e un riconoscimento implicito della propria ottusità da parte dell’altro.
Non è una sindrome che affligge soltanto l’arte e i suoi dintorni, o gli sport che godono di maggior visibilità. Risalgono agli anni ’90 i primi esempi di incubatore d’impresa in Italia, là dove e come il pubblico sosteneva le idee e i primi passi di chi voleva intraprendere attraverso l’istituzione di strutture e infrastrutture facilitanti. Ma è solo di recente che qualcuno si è mosso in quella direzione, e quel qualcuno è una banca privata.
Per encomiabile che sia l’iniziativa, è evidente che ha il sapore del capitalismo di ventura. E non c’è niente di male, ma rivela ancora una volta quanto sia stata evidente l’inedia della politica locale in merito. Difficoltà nel mettere a fuoco le possibilità e difficoltà nel mettere a terra, come si usa dire, iniziative di sviluppo del talento imprenditoriale locale e, soprattutto, giovanile. Poco male, comunque. Noi ci facciamo sempre trovare ben disposti a premiarne i risultati a prescindere, e pronti a rivendicarne un merito che non sappiamo avere.
Lele Ghisio
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Pier Giovanni Malanotte
16 Maggio 2023 at 10:42
Scritto con giusta riflessione e considerazione; un po’ fuori luogo i paragoni.
Una consolazione di fondo : meno male che qualche persona e cosa di buono c’è ancora.
Si può ancora sperare ?
Paolo Castellin
16 Maggio 2023 at 20:25
Dirsi e ridirsi le solite cose. Il pregio o il difetto delle province è il provincialismo…non si è Milano o Londra o New York, nessuna provincia lo è e allora? dobbiamo suicidarci? tanto non si vale niente… ma vivaDDio in provincia nascono persone come Barbera.