Attualità
Lettera di ringraziamento al personale del reparto Covid dell’ospedale di Biella
Riceviamo e pubblichiamo la lunga testimonianza di Emanuele Scribanti, vicepresidente della Fondazione Crb: i sintomi, la diagnosi, il ricovero, le cure
L’inizio
È vero che le nostre vite si dipanano come fili, talvolta paralleli, che poi si incrociano, si annodano e, alla fine, si sciolgono.
È un lunedì normale, una giornata ordinaria.
Nel pomeriggio una collega manifesta alcuni dei sintomi che nel periodo storico in cui viviamo suonano come campanelli d’allarme; così, arrivano subito i responsabili della sicurezza: «Lei è il secondo più vecchietto qui dentro. Cartellino rosso, smammare». Tra me e me dico «Intanto io ho la fortuna di poter fare smartworking», quindi prendo il mio pc e me ne vado a casa (aggiungendo un pensiero istintivo: «alla facciaccia loro…»).
Inizio a sentire una leggera tosse, mi provo la febbre – temperatura più che sotto controllo. Mi dico: «Sarà perché ieri ho preso freddo, non è niente più che un male di stagione». Per precauzione in casa scegliamo di isolarci, non si è mai abbastanza prudenti in queste situazioni.
È giovedì.
È il terzo giorno che sono isolato, la mia famiglia sta bene. Mi convinco di poter stare tranquillo, quindi salgo baldanzoso le scale del laboratorio.
Tampone rapido. Il dottore: «Lei ha una bella carica».
Tra me e me dico: «È vero, qualcuno mi trova anche simpatico».
«No, virale» – ribatte il medico.
Pongo quindi la stupidissima domanda:
«E adesso i sintomi quando arrivano?»
La risposta del medico è inequivocabile:
«Domani, tra dieci giorni, mai», è questo il rischio del virus.
Passano 5 o 6 giorni.
Mi dico: «Sta passando bene, bene».
E poi il mio fratellone medico Andrea mi avverte:
«Guarda, devi pensare agli anticorpi come dei tizi con un martello che si svegliano quando esce il virus e cominciano a picchiare». Ho pensato che i miei dovevano avere un martellone e picchiare come ossessi.
Qualche piccolo incubo notturno, durante il quale la polmonite era diventata almeno pentalaterale.
Purtroppo, martedì sera – ca 9 giorni dopo il contagio – sale la temperatura a 39 e mercoledì sera idem.
Giovedì mattina la prova del nove non è andata come speravo: saturazione 89/90. Ci siamo, chiamiamo il 118. Arriva per fortuna silenzioso e un ragazzone, bardatissimo di camice bianco, visiere varie, mascherine, mi carica sull’ambulanza.
«Soffre la macchina?», mi chiede.
«No, grazie».
Chiacchieriamo un po’, viene da Gattinara, studia medicina, una persona dal cuore grande. Arriviamo al triage del pronto soccorso, entro nella sala e c’è solo una persona in attesa – evidentemente la paura annulla tutte le false malattie da codice bianco e lascia spazio solo alle vere emergenze.
Passa una mezz’oretta ed entro: tutti gentilissimi. Esame del sangue venoso e arterioso (quanta gioia…), ossigeno, elettrocardiogramma, radiografia ai polmoni.
Con molto tatto alle 17 circa arriva la dottoressa: «Saremmo dell’idea di ricoverarla per un paio di valori borderline, valutiamo a breve cosa fare».
Decidono per il ricovero, probabilmente avevano già deciso e hanno usato un modo molto soft per comunicarmelo.
Partiamo con la barella con gli esami in mano, che riesco a leggere: un paio di valori doppi del normale e polmonite bilaterale.
Il viaggio in barella, su e giù per ascensori e corridoi, mi ricorda quei filmini girati con la Gopro sul casco del motociclista, dove tu sei fermo ed il mondo ti gira intorno; intravedo di sfuggita il reparto di ginecologia dove Andrea ha aiutato a far nascere un bel po’ di bimbi e si apre la porta fatidica del reparto Covid, abitato da marziani bianchi e blu.
Letto 5, camera a due letti:
«Sono il suo infermiere, se ha bisogno», partiamo bene.
Dopo due minuti arriva una giovane dottoressa:
«Ma lei è il papà del Viz (mio figlio), l’aspettavamo», partiamo meglio ancora. Ricostruisco nella mia testa e comprendo che il marziano è una gentilissima ragazza, appena laureata.
Nel letto di fianco c’è un signore che tossisce molto, ma fortunatamente senza ossigeno.
Dopo un po’ arrivano gli infermieri a cambiarlo, «al me friciulin» – lo chiamano –, e poi capirò il perché: 88 anni, meno di cinquanta chili e tutto in proporzione.
È tardi, ci portano la cena, non riesco a mangiare. Piccola digressione: una settimana dopo il ricovero lo stesso menù l’ho veramente sbranato e abbiamo sempre mangiato bene.
Inizia così il ritmo ospedaliero, che si sarebbe trasformato in routine: alle 21.00 luci quasi spente, alle 03.00 controllo, alle 05.00 prelievo del sangue, alle 07.30 saturazione, temperatura e pressione, terapia e colazione. Alle 11.00 visita del medico, pranzo alle 12.30 e cena alle 18.30 con annessa un’ulteriore visita del medico.
Il sarto del Papa Santo
La mattina dopo riusciamo a scambiare le prime due parole, lui con un filo di voce, è asmatico da quarant’anni e tossisce quindi non voglio stancarlo:
«Buongiorno, come sta»
«Ma sì benino»
Un attimo di suspence…
«Dove abita?»
«A Valdilana».
Passa un pochino e parte la domanda fatidica sul lavoro di una vita:
«Ho fatto il sarto fino a 85 anni poi non riuscivo più a infilare il filo nero nella cruna dell’ago, mentre il bianco sì. Così ho dovuto smettere» (nda per infilare un filo avrei bisogno del microscopio a scansione del CNR).
«Chissà che bei tessuti avrà visto in vita sua»
Passa un momentino e mi dice:
«Ma sì. Pensi che un giorno lavoravo per Agnona e mi facevano fare lavori un po’ speciali, sono arrivati tanti pezzi di un tessuto bellissimo, bianco, con le fodere da cucire con estrema attenzione, perché non si potevano riprendere che di un centimetro. È venuto fuori un cappotto bellissimo. Dopo qualche giorno alcuni colleghi mi hanno detto che era il cappotto di Papa Wojtila».
Ho pensato:
«Ottimo. Il Papa Santo ha un debito verso quest’uomo, quindi guarderà giù e magari gli scapperà l’occhio anche sul vicino».
Facciamo passare i giorni, diventiamo sempre più amici, mi racconta delle sette galline livornesi che per un mese hanno fatto otto uova al giorno, dell’uovo estraneo che ha fatto covare dalle galline facendo nascere un bellissimo piccione bianco e degli scoiattoli che rubano le noci.
Insomma, passa il tempo e faccio il possibile per aiutarlo un po’, cosa non necessaria perché lo curano come un re; sanno che non si lamenta mai e che ringrazia sempre.
Purtroppo gli sale la febbre, devono fargli gli antibiotici – ammetto di aver detto qualche preghierina. E ancora gli dicono che avrebbe dovuto fare due trasfusioni – ora sono preghierone e non preghierine. Mai un lamento anche se le vene sono quelle che sono, tra prelievi, endovenose e trasfusioni.
Evidentemente sono molto bravi gli e le infermiere e i fisioterapisti che lo fanno alzare e camminare.
Il mio socio è un vero fenomeno.
La verità è che non hanno trattato solo lui molto bene, ma anche il sottoscritto: mai una parola fuori luogo, sempre attenti a tutto e nei corridoi il buonumore tra loro.
Passano i giorni, ci fanno il tampone, la sera arriva la dottoressa che gli dice: «Guardi, è ancora positivo, ma non cambia nulla perché vogliamo che esca in piena forma».
Sottintendeva che il mio era negativo, però rincuoro il mio amico, sarei rimasto ancora qualche giorno per un valore del sangue che non vuole scendere.
Arriva il sabato e dopo 16 giorni e mi sdoganano.
Non nascondo che a entrambi è scesa un po’ più di qualche lacrimuccia, come anche con il personale.
Lascio il mio amico con la promessa che ci saremmo visti finita questa avventura.
E adesso… La morale di una non favola
Ho imparato tanto da quest’uomo: quanto contino l’educazione, l’umiltà e l’infinita pazienza di fronte alla sorte.
Ho imparato tanto da tutto il personale dell’Ospedale: quanto contino forti braccia, vera professionalità e, soprattutto, grandi cuori ed umanità.
Il mio pensiero è andato all’Avv. Squillario, per molti anni Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Biella, che ha fortemente voluto l’Ospedale. Un impegno importante, portato avanti con determinazione anche dalla successiva presidenza di Franco Ferraris e che, con un intervento del valore di 20 milioni di euro, costituisce il singolo contributo più significativo della storia della Fondazione. Un traguardo importante per tutto il territorio raggiunto dalla Fondazione superando difficoltà enormi, uno sforzo corale, anche in termini di risorse non destinate ad altri progetti, ripagato oggi dal poter fruire di uno degli ospedali più moderni e organizzati d’Italia, come è ben emerso nel corso dell’emergenza covid.
Nel “loro” ospedale i Biellesi trovano infatti non solo tecnologie d’avanguardia donate dalla Fondazione, ma personale preparato e attento al lato umano della cura che è fatto delle attenzioni degli infermieri al singolo paziente, grazie al progetto Primary nursing sempre sostenuto dalla Fondazione che mutua le eccellenze americane. Un ospedale che guarda prima all’uomo e poi al paziente dando la giusta attenzione ad esempio all’abbellimento degli spazi grazie alla presenza dell’arte negli spazi comuni e che simboleggia con un grande Terzo Paradiso sul tetto dell’ospedale, realizzato dai ragazzi biellesi, la vocazione della città alla creatività, attitudine riconosciuta dall’Unesco.
Ma c’è un ma….oggi infatti l’Ospedale è impegnato in una delicata operazione volta a portare a Biella alcune Cliniche Universitarie che potrebbero non solo attrarre giovani talenti capaci di portare ricerca e innovazione in una struttura all’avanguardia, ma fare dell’ospedale e della città un punto di riferimento in ambito regionale e nazionale.
Si tratta di passaggi difficili in cui molte forze sono in gioco e in cui la politica ha un peso molto alto, se però c’è una cosa che l’emergenza covid ci ha insegnato è che non è più il tempo dei tagli alla sanità o della burocrazia che frena i progetti: l’ospedale di Biella ha oggi una grande opportunità di diventare davvero un ospedale universitario.
Per questo chiedo quindi con forza ai decisori che decidano, che superino eventuali blocchi tecnici o personalismi.
I tempi non erano ancora maturi e Biella ha già perso validi professionisti come il dott. Uccella,
40 anni, luminare in alcune tecniche, benvoluto da tutti in reparto e dai pazienti operati. Autorevole, ma semplice. Ci aveva raggiunto in previsione della clinica e adesso l’Ospedale di Verona se lo è preso.
Oggi è il tempo delle decisioni, lo si deve al nostro Ospedale, alle persone che ci lavorano, perché ciò significherebbe un’ulteriore crescita professionale per tutti e una forte contaminazione, ovvero crescita, scientifica.
Credo che i decisori lo debbano ai Biellesi.
Credo che i decisori lo debbano al mio amico sarto del Papa Santo.
Credo che i decisori lo debbano a tutti i Biellesi che durante l’emergenza Covid hanno effettuato una straordinaria raccolta fondi per il “loro” ospedale.
Un abbraccio a tutto l’Ospedale e a tutto il personale, che ha saputo e sa affrontare, ogni singolo giorno, con coraggio, dedizione e gentilezza una sfida di fronte alla quale non ci eravamo mai trovati, mettendo a rischio la loro stessa salute e salvando le vite di coloro che ne hanno più bisogno. E, forse, è proprio questo senso di sacrificio, il senso ultimo dell’essere una comunità.
Emanuele Scribanti
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