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Attualità

L’alba dei morti dementi

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coronavirus
di Lele Ghisio

Non che si sentisse il bisogno che io aggiungessi questo articolo all’inutile dibattito sul Coronavirus, ma l’idea di parlare di qualcosa d’invisibile che scatena il panico ha vinto ogni mia resistenza. A differenza del Festival di Sanremo – altro soggetto generatore di inutili dibattiti – di cui ho stoicamente sopportato l’invadenza mediatica di la chiunque sulla qualunque, il Coronavirus ha invaso indirettamente ma attivamente la mia vita e modificato, in qualche modo, il mio quotidiano.

Ho iniziato la settimana partecipando a una festa di compleanno in casa di amici che, durante, si è rivelata essere fuorilegge secondo l’ordinanza regionale. Ci siamo divertiti parecchio a pensarci dentro al prequel di una serie tv post-apocalittica, complice l’alcol non contaminato non di certo usato come disinfettante, ma come sollievo morale. La settimana è proseguita, appena dopo la morte di un caro parente, con una breve e surreale riunione tra me, il responsabile dell’impresa funebre e il parroco del paese intenti a incrociare le disposizioni contenute nell’ordinanza regionale e in quella vescovile per capire com’era possibile celebrare le esequie; terminata poi con l’atmosfera altrettanto surreale di una ridotta celebrazione open air semideserta nel cimitero locale.

A seguire, viste le varie e urgenti incombenze a cui ci costringe normalmente una morte in famiglia, ho pranzato in una trattoria semideserta, laddove normalmente senza prenotazione non avrei trovato posto. I rumori della città mi apparivano attutiti come da un silenzio domenicale di prima mattina. Tanto da avere quasi nostalgia di qualche suv parcheggiato a caso dalle mamme in attesa fuori dalla scuola lì vicino.

Ho avuto modo, a posteriori, di comprendere il fiuto imprenditoriale di mia madre al ricordo di quando, rovistando qualche mese fa in un ripostiglio dismesso di quella che fu la sua abitazione, ci trovai una decina di flaconi di Amuchina. Probabilmente in attesa di essere venduti al mercato nero. Proprio da mia madre, che non si stancava di dirmi che si raccoglie ciò che si semina. E ora ci troviamo parecchio a disagio a essere discriminati, come italiani, quando da un po’ eravamo noi quelli abituati a farlo. Come si sta? Vien da chiedere.

Cercando però di mantenere un minimo di contegno, anche se travolti dalla sceneggiatura di una fiction divenuta realtà tragicomica, c’è da tentare un’interpretazione del panico e della confusione generati da un approccio che a definire approssimativo non credo ci si possa sbagliare. Stiamo pagando quella riforma, un po’ dissennata, di quel Titolo V della Costituzione che parcellizzava le competenze sanitarie regione per regione, sull’onda emotiva di un federalismo frutto del debito elettorale contratto nel pieno del ventennio berlusconiano. Così ci confrontiamo con provvedimenti a macchia di leopardo, senza capire bene chi ha copiato chi senza riuscire a gestire nulla.

L’altra mela avvelenata, buona ad alimentare lo stesso panico e la stessa confusione con la complicità dei media d’ogni ordine e grado, è l’attitudine, vile e scaricabarile, di una classe politico-amministrativa non più intenzionata, e nemmeno capace, di assumersi qualsivoglia responsabilità. E così ci ritroviamo protagonisti, più che di “La notte dei morti viventi” di George Romero, di “L’alba dei morti dementi” di Edgar Wright.

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