Attualità
La speranza che ha un senso
Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio
Per una volta vediamo di restare indifferenti alle fisime locali per raccontare una storia. Anzi, due. Che poi, a dir la verità, sono ben di più. C’è da tornare indietro col tempo per contestualizzarne l’attualità, ma è uno sforzo che dobbiamo fare.
In Argentina, dal 1976 al 1983, una delle dittature militari più brutali della storia contemporanea fece “scomparire” 30.000 cittadini, oppositori al regime o presunti tali. Perlopiù giovani, parecchi anche minorenni. Da quel tempo il termine “desaparecidos” non ha più avuto necessità di traduzione in altre lingue: esprime da sé tutto l’orrore possibile di una repressione scientifica.
I generali argentini impararono la lezione dagli “errori” cileni di Pinochet: i prigionieri “politici” non andavano stipati in uno stadio a favore di telecamere internazionali, ma andavano fatti scomparire come non fossero mai esistiti. Per chi volesse farsene un’idea, le torture e le bieche aberrazioni del regime argentino sono state narrate, cinematograficamente e letterariamente, da Marco Bechis, un sopravvissuto: nei film “Garage Olimpo” e “Figli/Hijos”, nel libro “La solitudine del sovversivo”.
A Biella esiste una comunità argentina di fuoriusciti da quell’incubo, che s’insediarono in città in quel periodo (un pensiero vola fino a José). Con loro e con l’associazione ApertaMente, nel settembre 2002, curai una manifestazione le cui iniziative erano distribuite tra il capoluogo (Palazzo Cisterna, Palazzo Lamarmora, diverse scuole) e Vigliano (Teatro Erios). Si chiamava “Non piangere per te Argentina”, propedeutica a descrivere il contesto di una delle maggiori tragedie del nostro tempo che portò, all’inizio del nuovo millennio, al default argentino e a rinnovate tensioni sociali.
Il programma ne prevedeva la narrazione attraverso spettacoli teatrali, cinematografici, musicali, incontri letterari, una mostra fotografica e varie testimonianze dirette. Proprio su queste ultime si concentrò lo sforzo maggiore, quello che restituì la drammaticità delle vicende personali e della comune lotta per i diritti umani.
In quella fase ospitammo, direttamente dall’Argentina, Elsa Pavon, una delle fondatrici delle Madres de Plaza de Mayo e la prima nonna a ritrovare la propria nipote desaparecida; Julio Santucho, direttore del Festival del cinema sui diritti umani di Buenos Aires, e, successivamente in novembre, Estela Carlotto, presidentessa delle Abuelas de Plaza de Mayo, più volte candidata al Nobel per la pace e da poco scampata a un attentato. Chi c’era non può aver dimenticato l’emozione suscitata da quegli incontri.
Al di là delle loro vicende personali, un sottile filo rosso legava queste tre persone: Elsa ricercava la sua nipotina, rapita quando aveva due anni; Estela era alla ricerca di suo nipote, partorito durante la prigionia dalla figlia Laura, assassinata dopo il parto; Julio, la cui famiglia è stata definita sui media italiani “la famiglia Cervi argentina” visto che furono una ventina i suoi familiari detenuti, assassinati o esiliati, stava ancora cercando il figlio che non aveva mai conosciuto, essendo stato partorito dalla moglie prigioniera e poi assassinata come Laura dopo il parto. Perché una delle maggiori aberrazioni di quella dittatura fu proprio il ladrocinio di bambini. Si stima che siano stati circa 500 i bimbi nati in cattività e sottratti alla propria madre – poi desaparecida – per darli in adozione a militari vicini al regime.
Estela, che fu ricevuta dall’allora sindaco Susta con il presidente della Provincia Scanzio e l’intero Consiglio comunale, era (e lo è ancora), dicevamo, la presidentessa delle Abuelas de Plaza de Mayo: le nonne di Plaza de Mayo. A differenza delle Madri, che rivendicavano l’habeas corpus dei figli desaparecidos, le Nonne istituirono una delle prime banche dati di Dna al mondo per ritrovare i propri nipoti strappati alle famiglie.
In occasione dell’incontro pubblico al Museo del Territorio disse che fino ad allora ne erano stati ritrovati 73. Tornando al presente, o quasi: Elsa, ritrovò la nipote già nel 1984, ma Estela, che all’incontro biellese dichiarò: «Non vogliamo morire senza abbracciare i nostri nipoti», ha ritrovato il nipote Guido, ormai uomo fatto, nel 2014, quando il totale di quelli ritrovati era a quota 114.
Ora il numero è salito a 133 e l’ultimo, a luglio, è stato il figlio che Julio non aveva mai conosciuto. Ci ho messo un po’ a raccontare questa storia perché prima ho dovuto piangerci un po’ sopra, lacrime di pura gioia. A chi, una ventina d’anni fa ci rimproverava di andare a rivangare inutilmente nel passato, posso oggi rispondere: «No, parlavamo del futuro!». E chiudere questo pezzo con l’incipit di un editoriale del 2014, scritto in occasione del ritrovamento di Guido: “Ci tocca di vivere, per vedere la speranza che effetto che fa”. Perché la speranza ha un senso, e la lotta la riempie di significato.
Lele Ghisio
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Maurizio
19 Settembre 2023 at 15:08
Ghisio bell’artico del ricordo e speranza, si dovrebbe inserire anche questo e non solo nei libri educativi di storia nostrani che si fermano alla seconda guerra mondiale. Questo per permettere agli anticorpi di quella malattia di svilupparsi. Tanti i giovani e non solo, che dicono e affermano di Pinochet essere un gentlement Cileno che godeva non a caso di appoggi di certo Occidente e tanto bastava, e increduli delle azioni dei generali Argentini (che la storia per chi la vuole leggere) hanno sistematicamente perpretato al genere umano di quella Nazione, che paga ancora oggi in termini di mancato sviluppo e DOLORE.