Attualità
La luna storta d’agosto
Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio
C’è sempre un attimo d’imbarazzo, quando non ci si vede da un po’ e ci si incontra dopo essere tornati a casa per rivivere la propria vita. Intanto, spero abbiate tutti fatto buon viaggio, fisico o mentale che sia. Non so voi, ma io ogni volta che torno, dal mio viaggio fisico o mentale che sia, ho la segreta e vana speranza che la mia vita sia diversa da quella che ho lasciato. Non radicalmente diversa: quella che ho, tutto sommato, mi sta bene addosso. Ma diversa in qualche dettaglio, differente a grandi linee. Tipo: un clima diverso, il mare a portata di bicicletta, dei biellesi più tolleranti.
Lo so, sono pretese eccessive, inutili sogni generati dal desiderio di cose impossibili. È così che il ritorno alla realtà ha sempre un impatto notevole, che lascia un po’ storditi ed ebbri, come ci svegliassimo da un’anestesia totale e non sapessimo se ridere o piangere, e nel dubbio sproloquiamo. Questo sempre che anche voi condividiate analoghi sogni di varia impossibilità. Perché non è proprio il caso che vi annoi con le mie paturnie come già altri fanno, pure se mi costerebbe meno dell’andare in terapia.
Nel tentativo di sottrarmi all’inevitabile rumore di fondo generato da quella specie di calciomercato che è diventata la politica, dove si dice oggi quello che sarà smentito domani, a spulciare la cronaca locale qualche sorriso mi è spuntato. Anche se resta l’amaro retrogusto della consapevolezza che non c’è nessuna estate in grado di cambiare le cose, perché la nostra luna d’agosto resta sempre storta. A differenza di quella di altri, che con la luna nuova vengono e con la stessa luna poi se ne vanno. Sto parlando della Raimbow light family, che a gruppi più o meno grandi diffusi nel mondo, dalla cinquantina alle migliaia di persone, pianta tende nei boschi per passarci un ciclo lunare fuor di metropoli.
Mica male l’idea, che forse farebbe bene a tutti, non fosse che la loro interpretazione della freak culture risulta, almeno esteticamente, un po’ fuori tempo. Un po’ meno ribelle e un po’ meno antisistema, di certo più “spirituale”, almeno vista da fuori, rispetto al movimento originale che visse il suo periodo di maggior diffusione negli anni ’60. L’aspirazione è quella di passare una mesata ad abbracciare alberi in ambienti incontaminati senza alcol, droghe, medicinali e tecnologia. Con l’unico imperativo del “vogliamoci tutti bene” intonato (chissà quanto, ahimè) al ritmo costante dei bonghi. La “Summer of love” era ben altra cosa.
Se tutto ciò accade a Piedicavallo, nonostante il carattere pacifico e innocuo di questa “occupazione”, potete già immaginarne le reazioni. Per giorni i giornali locali hanno riportato surreali lettere di protesta: chi scandalizzato dall’aver visto un uomo nudo danzare attorno al fuoco; chi preso a moltiplicare il numero delle defecazioni dei partecipanti per i giorni di permanenza e segnalando il problema con un invidiabile sprezzo del ridicolo, dimenticandosi delle “sciunte” di produzione locale sempre in agguato sui sentieri dei nostri monti; chi scandalizzandosi di nudità che a Rimini susciterebbero sdegno compassionevole e verrebbero rubricate a pudore di campagna. Fino alla coppia di solerti coniugi che astutamente si alterna nello scrivere ai giornali per ricordarci, in sostanza, che la nostra libertà termina là dove inizia la loro proprietà privata.
E questo è il punto. C’eravamo lasciati a fine luglio disquisendo di beni comuni e ci ritroviamo a farlo ora. Difficile eradicare il concetto di proprietà dal modello di sistema in cui ci troviamo a vivere, con tutte le implicazioni mercantili che ciò comporta, ma, visto che la discussione sui beni comuni è avviata, non è male farci su qualche ragionamento.
La polemica, sorta all’inizio dell’estate, sulle concessioni balneari del demanio marittimo, dura ancora con la lotta alla privatizzazione illecita di spiagge e arenili. Questo accade perché la bellezza naturale è giusto che sia resa disponibile alla cittadinanza tutta. Un concetto applicabile anche alle nostre montagne, senza la necessità di dare voce al senso del possesso, che fu certo pre-alessandrino.
Già il nostro territorio ha dovuto storicamente subire l’occupazione coatta dell’accesso ai torrenti, perpetrata a favore dell’industria tessile che, per quanto abbia favorito lo sviluppo dell’economia locale, ha fatto pure grossi danni ambientali e inibito uno sviluppo turistico compatibile. Forse non sarebbe male, in alcuni luoghi e situazioni, procedere a rendere demaniale certa proprietà privata. Giusto per ricordare che delle bellezze e delle risorse naturali del nostro Paese è sacrosanto che ne godano tutti, col dovuto rispetto s’intende. Con o senza bonghi. Peace and love.
Lele Ghisio
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