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La lezione di Adriano Olivetti è ancora fortemente attuale

Fra le righe, la rubrica di Enrico Neiretti

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Venerdì scorso ho seguito la presentazione del libro del giornalista e saggista Paolo Bricco “Adriano Olivetti un italiano del Novecento”. Un evento organizzato dall’associazione “Amici della Biblioteca Civica di Biella”, in cui l’autore ha dialogato con Pietro Sella, amministratore delegato del gruppo bancario.

Già il luogo della presentazione -l’ex lanificio Maurizio Sella- merita una visita. E’ un sito pieno di fascino, dove le testimonianze del passato dialogano con gli sguardi puntati sul futuro, un luogo in cui l’aspra e solida architettura industriale, stratificata nei decenni dei secoli scorsi, diventa involucro per i progetti di innovazione del Sellalab.

Questa sorta di ponte tra tempi diversi, vocazioni differenti e linguaggi che declinano diversamente il concetto di lavoro, è senz’altro un’ottima cornice per una riflessione sulla figura di Adriano Olivetti e sul suo lascito culturale, che, a più di sessant’anni dalla morte, è ancora ricco di spunti di interesse.

Paolo Bricco presenta un’opera appassionata ma per nulla agiografica, un lavoro di ricostruzione documentale della parabola novecentesca della famiglia Olivetti, che fluisce nelle parole come un romanzo. Un lavoro ricco e minuzioso (ho appena iniziato a leggere il libro) da cui emerge una figura di Adriano Olivetti lontana da certe raffigurazioni beatificanti e tesa a mostrare, oltre alle grandi intuizioni di un personaggio centrale nel dibattito culturale del Novecento, anche le contraddizioni e le battute d’arresto della sua azione.

Un’azione fondata su una visione ampia ed inclusiva di forze, soggetti e linguaggi -i lavoratori, gli intellettuali, le università, l’urbanistica, il design- capaci di apportare, ognuna di esse, un contributo fattivo alla crescita e all’evoluzione.

Ecco, quando si riflette di lavoro oggi non si può fare a meno di ripensare a questa grande lezione. Soprattutto in un tempo in cui il lavoro sta cambiando in profondità, un tempo in cui il radicamento territoriale è sempre più messo in discussione, un tempo in cui tanti aspetti del vivere sociale, di cui il lavoro costituisce da sempre il baricentro, sono in mutamento.

In questo tempo complicato sembra che sia proprio l’idea di una società inclusiva e partecipata a tramontare. Si riaffacciano tentazioni autoritarie, non soltanto in politica, ma anche all’interno dei modelli sociali e dell’organizzazione del lavoro.
Come se si potessero affrontare le sfide di un cambiamento epocale degli assetti economici e sociali riprendendo vecchi modelli basati sulle gerarchie e sulla visione padronale.

Il mondo è cambiato, la società è cambiata, la tecnologia ha riposizionato i nodi essenziali del nostro vivere, le famiglie hanno maturato esigenze differenti e composite, ma pare che il mondo del lavoro risponda alle nuove domande con vecchie logiche verticistiche, mostrando un’incapacità di conciliare le fondamentali esigenze di efficienza del sistema con le altrettanto sacrosante necessità delle persone che agiscono nella filiera produttiva.

Credo che invece, in una società evoluta, sia doveroso ragionare sulle potenzialità di una nuova era fondata sulla flessibilità, sulla tecnologia, sulla consapevolezza e sull’emancipazione delle figure professionali. Occorre innanzitutto superare la frammentazione delle visioni, ripensare al patto tra generazioni, sbloccare l’ascensore sociale da toppo tempo fermo.

In questo credo che la lezione di Adriano Olivetti sia ancora fortemente attuale. Certo gli elementi critici di oggi sono diversi da quelli del passato, ma se la forma di quell’esperienza può mostrare oggi dei limiti, senz’altro sono attualissimi i suoi motivi ispiratori, la sua visione che travalica gli aspetti meramente utilitaristici delle attività umane, e l’individuazione di un concetto “comunitario” come propulsore per un rinnovamento sociale.

Forse è davvero il caso di riprendere il ragionamento.

Enrico Neiretti

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