Attualità
La decrescita triste della popolazione cittadina
Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio
Chiedimi se sono felice. Anzi no, non facciamoci domande scomode. Mentre tentiamo disperatamente di uscire dall’isolamento, da quell’isola che sognavamo d’essere, in cui c’eravamo ostinatamente cacciati nel tempo a causa di una politica tutta presa a rimirarsi l’ombelico, la felicità di quell’isola l’abbiamo scambiata con un disagio diffuso e ha assunto forme leggendarie di narrazione del territorio.
La realtà ci presenta un conto per il quale c’è ben poco da stare allegri, figuriamoci essere felici. La realtà si presenta sotto forma di numeri da leggere e interpretare, o da giocare al lotto del futuro di questa città. Mai così pochi dal 1951, i residenti contati dall’Ufficio statistica comunale: erano 42.800 allora, sono 43.000 adesso. Con un picco di 54.000 nel 1971. La decrescita triste della popolazione cittadina – e, di riflesso, di quella in provincia – è senza sosta, nonostante l’ardito ottimismo del sindaco che sostiene la logica del meno peggio, riportando il fatto che altri capoluoghi di provincia abbiano perso più abitanti del nostro.
Una dichiarazione che, evidentemente, non sposta di una virgola (e nemmeno di un decimale) il problema: è andata male, ma poteva andare peggio. Su come farla andare meglio, non basterebbe il palasport, tristemente vuoto pure lui, a contenere tutti i commentatori da bar o da social con la loro semplicistica ricetta pronta all’uso. Quindi, allargare le braccia per dire che poteva andare peggio, è possibile che sia l’unica reazione plausibile, magari non per un sindaco, ma son tempi duri.
Il festival dei luoghi comuni, applicato al nostro di comune, non è più opportuno: “piccolo è bello”, “meglio pochi ma buoni” sono inutili e banali refrain che ci siamo canticchiati una quarantina d’anni fa sull’onda della nostra presunzione. Poi è venuto il tempo di riempirsi le bocche di “fare rete” e “fare sistema”, ma senza un realistico fare che sia seguito allo sterile dire: il gap infrastrutturale, e culturale, del nostro territorio è rimasto lo stesso.
In un distretto a vocazione manifatturiera, la delocalizzazione della produzione tessile ha comportato, di fatto, la disillusione dei lavoratori impiegati nel settore che a delocalizzarsi han dovuto provvedere da soli, alla ricerca di occupazione. E così è andata per una buona fetta di terziario, che senza imprese a cui fornire i propri servizi non aveva più ragione d’essere, ma soprattutto di restare. Andata altrove pure lei a cercar miglior fortuna. Chi può, ricorderà quegli anni ’80 e 90’ in cui il centro della città fiorì di sportelli bancari d’ogni istituto di credito possibile, pronto a ritagliarsi la sua fetta di torta. Ne conserviamo traccia negli immobili tristemente svuotati di servizi e personale. Potere della delocalizzazione, che si è sommata poi all’avvento dell’internet banking.
La monocultura industriale tessile, convinta di sopravvivere a se stessa come probabilmente la sua classe imprenditoriale, non ha certo provveduto alla diversificazione, preferendo gestire l’esistente fino a suo esaurimento. E così si lascia a esaurimento anche la popolazione: si nasce poco, chi resta invecchia e poi muore; cresciamo per l’esportazione i pochi giovani che rimangono.
Oltre alla “felice” presunzione isolazionista del passato paghiamo pegno anche all’assetto geografico: l’essere incastrati in questo cul-de-sac ai piedi della montagna, senza quindi poter essere zona di passaggio, e pure storicamente privi d’una significativa attrazione turistica, sommata all’altrettanto storica assenza di facoltà universitarie che calamitassero giovani in cerca d’autore, non ha certo facilitato il ricambio generazionale di abitanti e di idee per il territorio.
Neppure la relativa comodità di trovarsi a mezza strada tra Torino e Milano, solo un po’ più a Nord e con un mercato immobiliare favorevole, ha agevolato un’eufemistica esplosione di residenzialità a favore di pendolarismo d’élite, in assenza di una strategia di lungo periodo. Per quella servono garanzie dei servizi al territorio: un servizio di trasporto pubblico efficiente, un’implementazione dei servizi per l’infanzia e la famiglia, una qualità della vita che passa attraverso adeguate proposte culturali e di svago, un marketing territoriale che sappia raccontare tutto ciò.
In estrema sintesi, il nostro atteggiamento nei decenni precedenti ha prodotto una popolazione diversa rispetto al passato e non solo in termini quantitativi. È noto che la nostra provincia sia una delle più “vecchie” d’Italia, e in una popolazione che conta più adulti e anziani e meno giovani cambiano le dinamiche della mobilità, sociale e geografica. A questo punto, anche la velocità nella creazione del capitale umano e il sostegno del corpo elettorale a programmi politici riformatori potrebbero essere influenzati dal diverso mix generazionale: stiamo invecchiando senza speranza e senza idee.
Lele Ghisio
Continua a leggere le notizie de La Provincia di Biella e segui la nostra pagina Facebook
Roberto
24 Gennaio 2023 at 8:33
Articolo interessante con molte verità.Penso tuttavia le opportunità , non sfruttate , per rilanciare la città ci siano e non difficili da immaginare : i centri outlet in Italia funzionano bene A Biella un centro outlet dell’abbigliamento con tutte le firme ? ci sono gli spazi e i marchi. Rilancio delle funivie esistenti . Con un pò di spirito innovativo percorsi e mezzi per portare turisti ad Oropa e Tracciolino che sono davvero unici ,valorizzazione e pubblicizzazione dei luoghi da visitare dal duomo al Piazzo al Ricetto.Serve meno conservatorismo , più visione a medio termine , più stimoli per adeguare le strutture , più partecipazione di imprenditori locali e cittadini.Gestire il passato non serve.
Lele Ghisio
26 Gennaio 2023 at 11:23
Osservazioni pertinenti, ma, abbia pazienza, ascrivibili in quelle che nell’articolo definisco “semplicistiche ricette pronte all’uso”. Forse si è perso per strada qualcosa: il fallimento dell’interessante progetto 015 (un outlet diffuso per valorizzare il centro); che la funivia di Oropa è chiusa da almeno un anno, un bando relativo è andato a vuoto e ancora non sappiamo se e quando inizieranno i lavori per la manutenzione obbligatoria (per la quale i soldi si sarebbero dovuto accantonare nei 50 anni precedenti); che lo “spirito innovativo” non basta, ma servono progettualità e denaro, e una riforma del trasporto pubblico locale. Certo che serve meno conservatorismo e tutto il resto, ma non basta dirlo: sembra proprio che non siamo capaci di andare oltre. Spero di sbagliarmi nella lettura del futuro, ma intanto questo è lo stato dell’arte.