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La birra che suona male

Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio

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Fonzarelli di provincia

Ci capita spesso di sparare sulla Crocerossa delle nostrane debolezze. Lo facciamo apposta, nella sottile speranza che il paradosso possa redimere qualche animo sensibile e disposto all’abiura. Ma d’altronde si tratta di caratteristiche peculiari alle quali è geneticamente difficile sfuggire, nonostante ogni sforzo razionale messo in campo: siamo fatti così, genericamente parlando, e siamo per questo argomento di conversazione nel reciproco percularci.

Il lamento è la caratteristica più visibile in questi tempi di rigurgito social del malumore; anche i grafomani habitué delle lettere al direttore si sono ormai specializzati in certo leonismo da tastiera o quantomeno nella lagnanza in tempo reale negli spazi offerti dai social, convinti così che l’universo mondo li stia ad ascoltare quando, in realtà, sono puro engagement aziendale o di qualche vanità affamata d’effimera attenzione.

Il lamento, per quel che ci riguarda, è ormai una categoria dello spirito, probabilmente anche passibile di tutela da parte dell’Unesco.

Di certo ci si addice più di certa millantata creatività. Un antropologo attento si sarà di sicuro accorto però di una recente evoluzione del lamento biellese nella sua più ampia accezione. La mutazione ha comportato la nascita e la diffusione di una sorta di meta-lamento: il lamento della lamentela. Se prima ci si lamentava e basta, ora ci si lamenta di chi si lamenta; una sorta di lagnanza di secondo livello. Non che il fenomeno non sia giustificato, ma suscita una certa curiosità, oltre a introdurre un sicuro elemento di novità. Resta da capire dove finiremo di questo passo, elevando ad altre potenze la recriminazione: il brontolio ribollirà incessante fino a non poterne più individuare l’origine.

A questo punto ci sarà chi è pronto a lamentarsi di questa lunga digressione e chiedo scusa se sono scivolato così dallo stupore al ludico ragionamento. In realtà l’argomento “nascosto” della settimana è una fiera della birra artigianale, manifestazione locale di chiaro successo, sulla quale si è versato parecchio inchiostro virtuale.

Accade che all’apologia di media e relativo codazzo politico-amministrativo d’ogni colore, alla quale erano ormai assuefatti gli organizzatori, si sono aggiunte lamentele social sulla qualità del suono dei concerti – da non confondere col volume – proposti nell’ultima edizione. Lamentele in taluni casi peraltro circostanziate e non generiche o superficiali.

È così che si è scatenato il fenomeno della protesta nei confronti di chi si è lamentato. Dalla presunzione di lesa maestà da parte di un’organizzatrice e consigliera comunale che, piccata e un po’ infantile, rimbalza più e più volte un sostanziale: “e allora fatevela voi, la manifestazione”, fino al seguito di un discreto sciame di lamentele scomposte su chi si lamenta, a torto e a ragione. Si sono tirati in ballo volontariato e gratuità a sproposito come spesso capita: entrambi non giustificano, e nemmeno legittimano, un calo della qualità invece spesso ostentata a prescindere.

Sul volontariato a manifestazioni commerciali – perché di questo si tratta, visto che si vendono birra e cibo senz’altro scopo che il guadagno degli operatori – ci sarebbe parecchio da discutere. La gratuità, invece, si paga: comprando birra e cibo a prezzi che si possono considerare eccessivi o meno, a seconda del modello di business. L’importante è averlo chiaro e non trasformarli in alibi. I concerti invece, quelli veri, sono un’altra cosa e necessitano di particolari attenzioni tecniche. Resta comprensibile la frustrazione degli organizzatori di fronte alle proteste, ma è anche occasione per riflessioni sul futuro: alla perfettibilità si può e si deve tendere, non è un fattore acquisito e prescinde dalle intenzioni.

Chiunque abbia vissuto nell’orbita della produzione di concerti ha ben presente quanto sia frustrante misurarsi con zonizzazioni acustiche, relativi regolamenti comunali e astanti con un concetto egoriferito di cittadinanza, ma garantire la qualità del suono è una priorità troppo spesso trascurata. Può essere un impianto inadeguato, può essere un fonico non particolarmente esperto o, anche, una programmazione non adeguata al contesto. Più si alza il tiro, nei termini di qualità artistica, e più è necessaria l’attenzione alla dimensione professionale degli operatori con conseguente aumento della spesa. Il colpo al cerchio e l’altro alla botte non funziona: o si privilegia l’aspetto fieristico o quello artistico. O si ripensano gli spazi. In ogni caso non basta fare qualcosa per poi rinfacciarlo agli altri.

Piccola nota personale a chiarimento, che non si sa mai: per una ventina d’anni mi sono occupato professionalmente di produzione concerti. A quello di Britti non c’ero: ero però a un concerto gratuito in una manifestazione analoga in un’altra città, e il suono era perfetto.
Lele Ghisio

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