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In prima linea all’ospedale e sulle vette più alte «L’emergenza? Non è per tutti: o la ami, o scappi via»
Un caffè con… Cinzia Rollino: La vita a mille all’ora e le passioni della coordinatrice infermieristica del pronto soccorso di Biella
BIELLA – Cos’hanno in comune le irraggiungibili vette del Nepal e le corsie di un pronto soccorso? Nulla, apparentemente, ma non per Cinzia Rollino, capace di affrontare con la stessa energia e determinazione un’emergenza sanitaria, così come la conquista di una cima proibitiva.
Quarantasette anni, originaria di Casale Monferrato, da circa un decennio è la coordinatrice infermieristica del pronto soccorso, anima e cuore pulsante dell’ospedale “degli Infermi”. All’appuntamento per il caffè promesso qualche giorno prima, arriva con l’aria un po’ provata di chi ha già avuto un turno impegnativo alle spalle, ma con la fiamma negli occhi di chi è abituata a vivere ai mille all’ora.
Lei sembra avere una sorta di “passione” per l’emergenza. Com’è arrivata a Biella e perché ha scelto proprio di stare “in prima linea”?
Il pronto soccorso devi sentirtelo dentro, non è per tutti. O lo ami o scappi, e io lo amo. Amo l’urgenza, le situazioni in cui quasi non hai il tempo di pensare, ma poi vedi subito il risultato del tuo lavoro. Sono arrivata a Biella nel 1996, dopo aver frequentato la scuola regionale di Casale, vincendo un concorso. Ho iniziato la mia esperienza qui e mi sono trovata bene, anche perché amo molto la montagna. E alla fine, dopo alcune esperienze anche nel 118 e nel Vercellese, sono rimasta qui, ma continuo a sentirmi alessandrina dentro. Consideri che ho cambiato la residenza solo sei mesi fa, dopo aver acquistato casa nel Biellese… Dopo numerose esperienze anche a livello di 118, ho conseguito il master di coordinamento e adesso ricopro questo ruolo da circa dieci anni.
Un compito non facile, anche perché parliamo di una realtà che per sua natura è tra le più soggette alle critiche, in particolare sui tempi d’attesa.
Già da tempo si è iniziato a lavorare per cercare di ridurre i tempi d’attesa, trasformando quella che era un’attesa passiva in attesa attiva. Uno dei problemi dell’epoca pre covid era che il pronto veniva utilizzato troppo spesso impropriamente, nonostante le numerose campagne per un suo buon uso. Ora la situazione è leggermente cambiata, è meno frequente che vi accedano persone senza un’effettiva urgenza. Purtroppo è vero, in generale le minori priorità attendono, anche parecchio, e ovviamente quando sei paziente ti senti sempre urgente, è fisiologico e normale. Poi, certo, pesano anche le carenze di organico, ma quelle sono un problema che affrontano tutti, chi più e chi meno, e il paziente non ne può nulla.
Qual è il compito di una coordinatrice?
Innanzitutto deve avere una visione e trasmetterla al gruppo, deve dare il buon esempio, deve remare lei per prima per spronare tutti a remare insieme. Credo che esempio, lealtà e presenza siano le parole chiave, deve stare con e nel gruppo, accompagnando i colleghi più giovani nel loro percorso di formazione, facendoli crescere.
Lei ha una lunga esperienza alle spalle, c’è un momento che l’ha segnata particolarmente?
Sì, era il mio primo turno con il 118. Siamo stati chiamati per un un ragazzo di poco più di trent’anni in arresto cardiaco, era la prima volta che intervenivo in una casa, con i parenti della persona da salvare presenti. Insieme al medico lo abbiamo defibrillato molte volte, davanti agli occhi del fratello e della madre, ma purtroppo è stato tutto inutile. A un certo punto, quando ormai lo avevamo perso, il padre mi ha chiamata in cucina per mostrarmi il cartone della pizza che poco prima avevano mangiato insieme. Non ho retto. Sono uscita, mi sono chiusa dentro l’ambulanza e ho cominciato a piangere. Dopo quell’episodio i colleghi del 118 mi dissero “prenditi un attimo per metabolizzare, ma poi si riparte”. Si deve ripartire.
Dev’essere difficile riuscire a convivere con la sofferenza e il dolore che si vedono ogni giorno…
Lo è, ma impari a gestirlo, a sgomberare la mente una volta finito il turno. Crei dei meccanismi di compensazione, è indispensabile, è questione di sopravvivenza.
E invece un ricordo gioioso che le è rimasto nel cuore?
Ero a Cavaglià, era l’8 dicembre di 14 o 15 anni fa. Ci chiamano da Borgo d’Ale per un travaglio. In teoria doveva essere un intervento semplice: barella e trasporto all’ospedale. Invece arriviamo lì e troviamo il marito fuori che fuma. Ci guarda e ci dice “è ora”. Entriamo in casa e troviamo la signora sul divano che urla, con le gambe già divaricate. Anche lei dice che è ora. In quel momento ho pensato ommioddio. Non ho figli e l’idea di aiutare una donna a partorire mi inquietava parecchio. L’inizio è tragicomico: “Signora, chiuda le gambe e non spinga!”. La donna, poverina, mi guarda con aria perplessa: “Ma come…?”. Non c’è tempo, non si va da nessuna parte: il bambino deve nascere lì. Così le dico di non preoccuparsi, tiro fuori tutte le reminiscenze sul parto e lo facciamo nascere.
Quindi andò tutto bene?
Sì, alla fine eravamo tutti stravolti. Vedendo la mia faccia, il marito mi disse: “Io la ringrazio tantissimo… Vuole un un bicchiere di whiskey?”. “Guardi, se non dovessi finire il turno…”. Il giorno dopo mi chiamarono dall’ospedale, dovevo andare a firmare per la nascita. Il caso volle che incrociassi la neomamma in corridoio e che mi riconoscesse. Mi ringraziò e mi accompagnò a vedere il bambino, chiedendomi se volessi prenderlo in braccio. A quel punto le confessai che non avevo mai fatto nascere nessuno prima di allora. Lei si mise a ridere e rispose “l’avevo intuito…”. Fu una bellissima esperienza.
Tornando invece alle esperienze brutte… Com’è stato vivere la pandemia dentro a un pronto soccorso?
All’inizio terribile. Non sapevi cosa stesse succedendo di preciso, le persone peggioravano e morivano nel giro di poche ore. E nei reparti era pure peggio. Da infermiera è stato difficilissimo, perché il virus ci ha costretti a prendere le distanze e a rinunciare a quella che è l’essenza del nostro lavoro: il contatto e la relazione con il paziente. Ci erano rimasti soltanto gli occhi per comunicare. Senza contare le preoccupazioni personali. All’inizio tanti colleghi se ne sono dovuti andare di casa per garantire la sicurezza dei loro familiari. Eravamo stremati psicologicamente e fisicamente. Sentire che ancora oggi ci sono “negazionisti”, fa incredibilmente male a chi ha visto e vissuto tutta quella sofferenza.
Voltiamo pagina: libri, musica e film preferiti?
A livello musicale ho gusti variegati: passo dai Negramaro a pezzi più “duri” per caricarmi quando vado in bicicletta, tipo Ac/Dc e Metallica. Però ascolto anche tante altre cose. Elisa, Ligabue, Zucchero, Alpha Blondy, gli Orage e il suono della loro meravigliosa ghironda. Adoro anche I Talking Heads. Per quanto riguarda lettura e cinema è più facile: non sono una da romanzi rosa, leggo soprattutto libri sulla montagna, da Trabucchi a Bonatti. Idem per i film. Però amo molto anche il teatro e la commedia napoletana.
La montagna sembra un punto fermo della sua esistenza. Come nasce questa passione?
Il merito è di mio padre, praticamente mi ha dato i ramponi prima delle scarpe… Però non sono un’agonista, semplicemente mi è sempre piaciuto fare fatica per raggiungere la cima, ancora meglio se in buona compagnia. Aiuta a sviluppare la resilienza.
Detta così sembra una cosa da niente, invece lei ha affrontato alcune delle vette più toste al mondo, ghiacciai proibitivi, laghi sopra i 5mila metri…
Non potrei farne a meno: c’è chi soffre di mal d’Africa, io soffro di mal di Nepal… L’ultima spedizione che stavo preparando doveva essere sull’Annapurna IV (7525 metri, ndr) poi c’è stato un terremoto e abbiamo dovuto rinunciare. Alla fine abbiamo deciso di trasformare quella che doveva essere la nostra avventura in una raccolta fondi. Abbiamo racimolato del denaro e lo abbiamo portato giù: consentirà a una ragazza di tredici anni, che era stata ritirata da scuola perché ogni giorno doveva camminare per tre ore per raggiungere l’istituto, di avere i mezzi per proseguire gli studi. Abbiamo acquistato materiale scolastico e terreni e materie prime prime per costruire nuove abitazioni nei villaggi. Tanto l’Annapurna è sempre lì, può aspettare.
Che cosa le lasciano queste esperienze?
Cammini tantissimo e vivi con gli sherpa. È estremamente arricchente, dà un’energia pazzesca. Affronti situazioni difficili che ti mettono alla prova. Ricordo la volta che, dopo aver scalato il Lobuche Peack ed essere scesa di parecchi metri per raggiungere il Lodge, rimanemmo bloccati per tre giorni a causa di un monsone inatteso. Non smetteva più di nevicare. Purtroppo ci furono anche delle vittime che non erano riuscite a scendere di quota in tempo.
Un ricordo curioso vissuto in una di queste occasioni?
Quando feci assaggiare il Genepy allo sherpa che mi accompagnava: gli dissi di berne poco visto il tasso alcolico, ma alla fine, a quell’altitudine, quella a cui bastò un goccio per sentirsi ubriaca fui io.
Se non fosse la coordinatrice del pronto soccorso, cosa vorrebbe fare Cinzia Rollino?
Mi piacerebbe gestire un rifugio e viaggiare in bicicletta, un’altra passione che condivido con mio marito e gli amici. Una delle ultime esperienze è stata proprio il cammino di Santiago in sella alla bici. Un bellissimo viaggio di 13 giorni.
Emergenze in pronto soccorso, situazioni estreme quando si toglie il camice, viaggi faticosi… Ma lei si riposa ogni tanto? Ce l’ha un divano?
Certo che ce l’ho, ma di solito ci stanno i cani (ride, ndr). Effettivamente mi trovo sempre qualcosa da fare. La mia regola è che per dimagrire e riposare avrò tempo quando sarò morta!
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