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I veri mostri siamo noi

Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio

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Fonzarelli di provincia

“Una roba orrenda decisa da qualcuno senza cervello che paghiamo con le nostre tasse. Semplicemente uno schifo”. “Veramente brutto… complimenti al designer”. “È un segnale…. Il significato è oscuro e tantissimi non capiscono che cosa vogliono fare i potenti… anche i colori rosso bianco significa qualcosa ma pochissimi sanno”. “Sarà sicuramente un opera d’arte, ma non mi sembra un granché, è inquietante”.

Chiedo perdono conto terzi delle evidenze dislessiche e di qualche stortura grammaticale presente in questi virgolettati, ma questo è il linguaggio medio sui social: quello che contribuisce a far del nulla una notizia. Chi non sta sui media sociali non può capire, risulta difficile comprendere quest’universo parallelo ma pur sempre rivelatorio. Una volta s’aveva da andare al cinema a vedere “I mostri” di Dino Risi, per capire quanto i mostri fossimo noi. Ora lo possiamo verificare comodamente dal bagno di casa o in fila alle Poste.

Mi sa che a questo punto qualcuno avrà capito dove voglio andare a parare. Anzi, no. Perché i virgolettati citati all’incipit sono sì tratti dai commenti a un post su Facebook, ma il post riguarda la posa della statua di un Torèt, reinterpretato secondo canoni contemporanei, alla stazione di Porta Susa a Torino. È l’utile dimostrazione di quanto la nostra peculiarità in realtà non esista proprio. Non siamo originali neppure a lamentarci, figuriamoci a essere creativi.

Non abbiamo quindi l’esclusiva dell’indignazione gratuita. Questo per dire di quanto la polemica sulla mostra a Oropa superi la noia della visione coatta dell’opera omnia di Ėjzenštejn e non sia certo una polemica di livello mondiale, ma resti confinata nel provincialismo che ci caratterizza. Se ne sono lette di tutti i colori, variabili sfumate di: ignoranza diffusa, ansia da prestazione nel dispensare opinioni di cui il mondo non poteva fare senza, confusione mentale, spirito inquisitorio e attitudine censoria e oscurantista.

Non è la prima volta che capita in questa città, che pur ospita il quartier generale di uno dei maggiori artisti contemporanei di livello mondiale, che voci dalla città stessa si levino da paladini della crociata culturale contro l’arte contemporanea. Ci si dimentica spesso che l’arte figurativa dall’avvento della fotografia ha accusato un duro colpo. Da allora non è più necessario riprodurre così fedelmente la realtà, ma la si può interpretare secondo pulsioni più personali e per questo più artistiche che artigianali.

Perché l’altro inghippo sta proprio qui: un ottimo artigianato non è arte, pur se ne condivide la radice etimologica. Altrimenti tutti i falsari sarebbero grandi artisti: chi è bravo a copiare Van Gogh non è Van Gogh. Poi, in ogni caso e maggiormente in questo, non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace. Non è poi così difficile accettare che ci sia qualcuno a cui piace ciò che a noi no, non piace. Non è mai quello il punto. Poi, a definire ciò che è arte o non lo è ci penseranno il tempo e il mercato dell’arte, mica sempre così obiettivo e oggettivo. Il parere dei critici d’arte può essere contrastante, quasi quanto uno sproloquio di Sgarbi.

C’è chi ha tirato in ballo sacro e profano, dell’opportunità di una mostra “mostruosa” in un santuario. Ma il Rettore ha ben spiegato le sue ragioni, anche se l’opera che necessita di troppe parole per essere spiegata di solito ha poco a che fare con l’arte e la magia della sua sintesi: giocare al ribasso non fa bene all’arte.

A proposito di sacro e profano: la polenta concia non è un piatto della Madonna. Ci sarebbe da bandire almeno quella fatta male, che è un affronto all’arte culinaria. Per non parlare dei mercanti nel tempio e dell’opportunità di fare commercio in un luogo sacro, che comunque per i suoi costi di manutenzione dubito possa far affidamento solo su questi critici locali così spaventati da una statua.

E che ne direbbe Umberto Eco, che scelse un monastero per ambientarci “Il nome della rosa” per una storia di potere e morte. Ma ambientata nel Medioevo e l’inquisitore non fa certo una bella figura. Come non la fanno nemmeno quelli nostrani, che non si capacitano di essere nel Terzo Millennio e un po’ gli dispiace.

Conservo il ricordo caro, e qualche brivido, di una sera di settembre del 2004: grazie agli allora amministratori e Rettore, ebbi l’occasione di occuparmi della produzione di un concerto nella Basilica Superiore. Era “Litania”, con Giovanni Lindo Ferretti e Ambrogio Sparagna. Dati i trascorsi anarco-punk di Ferretti le perplessità erano molte, ma la magia di quella sera è rimasta nel cuore di chi c’era. Ed eravamo veramente in tanti. L’importante è osare e avere menti aperte, altrimenti diamo ragione a chi, sui social, commenta: “Mamma mia, siete dei presi male cronici”.

Lele Ghisio

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