Attualità
I sindacati: «E’ vero che c’è la carenza di operai ma il problema è causato da salari e contratti»
Cosi si esprimono i responsabili delle organizzazioni dei lavoratori Lorenzo Boffa della Cgil e Barbara Piva della Cisl
BIELLA – Cercasi operai. Ora lo dicono anche i sindacati, dopo gli industriali. Ma la questione non è semplice. C’è di mezzo un cambiamento culturale oltre che geo-economico, per capire l’assenza di incontro tra domanda e offerta nella galassia che ruota intorno alle fabbriche tessili del nostro territorio.
«Prima questione: c’è una questione demografica. Il nostro territorio perde popolazione e invecchia. C’è un calo significativo di popolazione giovane – esordisce Lorenzo Boffa, segretario generale della Camera del Lavoro di Biella -. La classe di età tra i 15 e i 34 anni è composta da 30.259 persone, più di 5.000 unità in meno rispetto a 12 anni fa. E’ duplice l’effetto calo della natalità, ma anche la presenza di giovani stranieri nel nostro territorio. Tra i 50 e i 64 anni cioè nella fascia di età di chi sta andando o andrà in pensione nei prossimi anni, abbiamo più di quarantamila persone. Se è pur vero che non tutti lavorano e non tutti sono lavoratori dipendenti è evidente, solo da queste cifre, che stanno mancando i numeri per un turn-over lavorativo tra generazioni. Attrarre persone nel nostro territorio con questi numeri diviene una necessità se non vogliamo che sia il tessuto produttivo a dover spostarsi».
E ancora: «Spesso non c’è corrispondenza tra le figure professionali ricercate e le caratteristiche delle persone in cerca di lavoro. C’è un profondo problema di orientamento rispetto ai percorsi formativi che i giovani prendono, ma anche la difficoltà di puntare a processi di riqualificazione durante la vita lavorativa. Il Biellese pagava già un forte gap strutturale in tema di formazione e scolarizzazione, quel divario si sta allargando a causa delle veloci e significative trasformazioni dei processi produttivi: per questo motivo va aumentata l’offerta formativa e non va limitata ai soli disoccupati, ma va resa strutturale anche per chi lavora al fine di mantenere competenze adeguate per proseguire la propria esperienza lavorativa sul proprio posto di lavoro o comunque aumentare la possibilità di trovare un altro lavoro in caso di disoccupazione».
Infine il sindacalista sostiene: «E’ spesso complicato richiedere alle persone di formarsi/investire per un lavoro che viene vissuto come precario e/o non di prospettiva. Da questo punto di vista non paga quindi né la scelta che si persegue in modo diffuso di proporre contratti a termine o attraverso agenzie interinali né la politica di scaricare le difficoltà reali e/o presunte sui dipendenti attraverso contenimento salariale, aumento dei ritmi di lavoro e peggio licenziamenti collettivi. D’altra parte si fa sempre più pressante anche un secondo elemento qualitativo in particolare tra i più giovani, ma non solo, a determinare le scelte lavorative non sono più solo il salario. La stabilità e la possibilità di crescita professionale si aggiungono a un nuovo elemento, quello della conciliazione con la vita privata. La ricerca di una realizzazione al di fuori dell’orario di lavoro è una forte spinta a trovare nuovi lavori a cambiare anche frequentemente, alla ricerca di tempi lavorativi più concilianti. E’ evidente che siamo di fronte a un cambio di paradigma culturale di cui si dovrà tenere conto per riorganizzare i modelli organizzativi. Chi non ne tiene conto corre il rischio di essere meno attrattivo di altri».
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Barbara Piva, della Cisl. «La scuola e la formazione sono centrali in questo ragionamento di aziende che cercano operai, che non trovano. Serve infatti una maggiore connessione tra formazione e mondo del lavoro. Troppo spesso assistiamo a ragazzi che concludono il proprio percorso scolastico senza sapere come orientare/sviluppare la propria vita lavorativa – spiega il segretario generale della “Femca” del Piemonte Orientale -. Un tema che riguarda anche le famiglie, spesso orientate a disincentivare i propri figli a entrare nelle fabbriche. Per molti versi un errore, perché le fabbriche non sono più i luoghi rumorosi, pesanti e soprattutto pericolosi che sono stati per molto tempo anche dalle nostre parti. Questa narrazione va cambiata, perché cambiato è il mondo del lavoro e delle fabbriche».
E ancora aggiunge la sindacalista, per quasi vent’anni operaia alla “Botto Luigi” di Valle Mosso, quando aveva quasi mille addetti: «C’è anche un tema economico, da tenere in grande considerazione. I contratti e i salari nel comparto tessile sono bassi. Una situazione che non incentiva i giovani, magari quelli interessati a crearsi una carriera, oltre a un semplice lavoro. E’ inoltre vero che, nel mutamento radicale del mondo del lavoro, oggi, c’è la tendenza a cambiare professione nell’arco della propria vita. Ragazzi e ragazze vogliono fare più esperienze. In questo senso, una contrattazione di secondo livello, che premia il merito e la voglia di crescita professionale, aiuterebbe le aziende nell’essere attrattive. Le aziende, invece, spesso, quando gli affari girano bene, non hanno la lungimiranza di premiare le competenze e le professionalità dei proprio lavoratori. Non tutte, ovviamente».
Paolo La Bua
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