Attualità
Contro i bei tempi andati
Gli sbiellati, la rubrica di Lele Ghisio
Sul tempo si è filosofato da sempre, fino a incrociarlo con la fisica dell’ancora ignoto e a relativizzarlo anche nel comune discorrere di quello che ci scivola addosso. Affare complesso, quello di ragionarci su e ottenere risposte compiute a domande in genere così approssimative.
Ci abbiamo comunque a che fare dall’attimo del nascere fino a quello del morire, con scansioni determinate dalla convenzione del suo frazionarlo in secondi, minuti, ore, giorni, mesi, anni. La decadenza fisica del nostro corpo ce ne dà il segno, ci scolpisce addosso un intero calendario, in un saliscendi di mutazioni che ci definisce come ben più di un me stesso: ci definisce come tutti i me stessi che siamo stati e, con un pizzico di fortuna, che saremo. Risulta così assolutamente normale che il ricordo migliore che abbiamo di noi, visto che la memoria cristallizza quel tempo, sia quello afferente all’apice feromonico e della prestanza fisica utile alla bisogna. Con gli annessi e connessi che il contesto permette: a ognuno il suo tempo.
Parte forse da qui il nostalgismo che ci affligge in modo permanente, con la stessa retorica ripetuta in un patetico refrain. Fino a generare un inevitabile e sterile passatismo, quella comprensibile ma ingiustificata passione per idee e modalità sociali del passato. Morte e sepolte proprio dal tempo, ma così vive e passibili di resurrezione nel nostro immaginario intriso della memoria del me stesso migliore.
Perdonate il pippone, ma quando c’è così urgenza di esternarlo è perché per primo ne sono rimasto vittima. Vittima di me stesso, di quello di adesso che si confronta con quello di allora. In realtà, alla base di questa confusione d’identità sovrapposte, ci sta qualcosa di molto più banale, reale e disincantato: “Back to Cancello”. L’evento revival che ha celebrato l’ultimo periodo di una delle discoteche cittadine più conosciute e che, la scorsa settimana, ha riempito piazza Cisterna di un entusiasmo che era facile prevedere, ma che invece è parso ingenuamente inaspettato.
Manifestazione d’indubbio successo, che però spero non si replichi proprio sull’onda di quest’entusiasmo. Perché resto fedele al culto di “Back to the future”, piuttosto, e so di farmi qualche nemico scrivendo della speranza che l’episodio resti unico, ma in realtà è il miglior complimento che si possa fare. Nel senso che non avrebbe senso ripetere l’irripetibile: l’unicità non è replicabile per definizione.
Il rischio è la consuetudine, la non eccezionalità dell’evento, la banalizzazione della memoria. Quel giocare a essere il me stesso di un altro tempo che, a reiterarlo, mette un po’ di tristezza. Com’è difficile essere uomini o donne di mezz’età, oggi. E quanto ci deve dispiacere il nostro essere contemporanei, tanto da rifugiarci nel passato per credere d’essere migliori. O per credere che quello fosse il meglio di noi. O, magari, solo per tornare a divertirci. Quasi che ci fossimo dimenticati come si fa.
Negli anni ’80, e in parte anche nei ’90, certi brani dichiaratamente revival si ballavano anche in discoteca, ma senza nostalgia e per celebrare un disincanto che ci pareva esotico, come forse effettivamente era, quello legato alla musica degli anni ’60. Ma quelli erano ancora anni che surfavano sull’onda lunga del miracolo economico; poi vennero gli anni ’70 con tutta la loro grevità. Ora quel revival è dimenticato, sostituito dal “new revival” per questioni anagrafiche, molto meno esotico e molto più soggettivo, quello che evoca la memoria dell’io e non del noi.
Eh già, il tempo che passa. Come quello passato sugli stabilimenti industriali, ora bollati come archeologia, ma che allora percepivamo come eterni. Ci fosse un partito del rimpianto, vincerebbe le elezioni. Per questo suona male la mitopoiesi di un locale, nato negli anni ’70 come cantina jazz appoggiata sui fianchi di un carcere e poi diventata discoteca fighetta col passare del tempo, fino al suo esaurimento d’inizio millennio, in un quartiere allora degradato e quasi dimenticato dal resto della città. È stato poi il futuro a riqualificarlo, quel quartiere, fino a renderlo addirittura modaiolo com’è ora, meta delle nostre serate estive. Se ci legassimo davvero a quel passato avremmo solo da rimetterci. È che, in realtà, abbiamo solo tanta nostalgia di noi stessi e dei nostri vent’anni.
A questo punto mi viene da fare una cosa inedita, tipo rilasciare qualche consiglio di brevi letture da mettere in pratica tra una nostalgia e l’altra: “Il decennio dell’io” di Tom Wolfe (Castelvecchi), un piccolo saggio del 1976 in cui si descrive la deriva individualistica di quegli anni; “Momenti di felicità” di Marc Augé ((Raffaello Cortina), in cui l’autore afferma che “la felicità sembra essere un concetto temporale” e l’irrinunciabile e paradigmatico “Contro i bei tempi andati” del filosofo Michel Serres (Bollati Boringhieri). Buona lettura.
Lele Ghisio
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