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Un uomo fragile, immerso in pensieri enormi
Conobbi prima la sua penna. Poi conobbi lui, Giuliano. Del quale, oggi, non scriverò elogi o epiche, che si inferocirebbe come pochi. Racconterò solo un paio di dettagli che forse aiuteranno quei tanti suoi lettori che non lo conoscevano personalmente, a capire chi era l’omone nascosto dietro a “Gram”. In lunghi anni, ebbi il privilegio di fare un mestiere che mi consentì di dialogare con lui sulle colonne di questo o di altri giornali.
Edoardo Tagliani ricorda Giuliano Ramella
Conobbi prima la sua penna. Poi conobbi lui, Giuliano. Del quale, oggi, non scriverò elogi o epiche, che si inferocirebbe come pochi. Racconterò solo un paio di dettagli che forse aiuteranno quei tanti suoi lettori che non lo conoscevano personalmente, a capire chi era l’omone nascosto dietro a “Gram”. In lunghi anni, ebbi il privilegio di fare un mestiere che mi consentì di dialogare con lui sulle colonne di questo o di altri giornali.
Polemizzammo, condividemmo battaglie, ci rifilammo cazzotti retorici da far paura, anche. Si, conobbi prima la sua penna. Una penna sagace, a tratti difficile sia da leggere, sia da digerire.
Poi, anni fa, poco dopo il suicidio della sua bambina, cominciammo un carteggio privato che si intensificò in questi dolorosi mesi. Ultimamente sfruttavamo i social media, ma usandoli come piume e calamai di un paio di secoli fa. Frustravamo le messaggerie “istantanee” con messaggi tutt’altro che istantanei, senza segni, orrende faccine, abbreviazioni irritanti. Messaggi a volte lunghi come il cielo, con gli aggettivi limati, pescati attentamente. Io scrivevo e lui rispondeva. Magari dopo un’ora, un giorno, una settimana o un secondo. E viceversa.
Giocavamo con il gioco che più ci piaceva, quello che ci è sempre piaciuto. Le parole. Niente sciatterie, niente concessioni alla troppa velocità dei bit, quella che spesso non lascia il tempo di pensare. Scoprii un Giuliano a tratti uguale a quello pubblico, a tratti profondamente diverso.
Introverso, intimistico, ancor più complicato nel periodare per cercare di incidere pensieri complessi su un semplice foglio. Non l’uomo deciso, sicuro che firmava “la paga”, con quella satira a tratti tracotante e prepotente, capace di far saltare i nervi a chiunque. Non il carroarmato che difendeva a penna alta e testa bassa qualsiasi sua opinione, anche quelle che io consideravo insensate, capziose, consapevolmente cattive. No. Un uomo fragile, immerso in pensieri enormi che andavano ben al di là di qualche capannone, qualche corsivo o qualche polemica. Eppure, d’altro canto, lo stile era quello: alla sua intimità applicava la stessa ferocia, lo stesso disincanto cinico che riservava al mondo di fuori. Si metteva a nudo fino a scorticarsi, stilava la lista lucida e fredda di alcune sue colpe o di quelle che lui pensava fossero colpe e che invece io penso fossero destino. Se a nessuno faceva sconti, Giuliano, a sé stesso riservava trattamenti ancor piu’ rudi, ficcanti, spaventosamente tranchant.
Parlammo di lui, del dolore mostruoso e costante per la sua Cecilia coi “capelli color del grano”. Il pensiero fisso di ogni giorno, ogni passo, ogni lettera messa in fila dentro una parola. Parlammo della sua famiglia, del suo lavoro, di quel piccolo cane che, morendo, gli provocò una fitta inaspettata. Era un legame fisico con quella figlia volata via tanto tempo prima, e lui se ne rese conto appieno solo quando lo seppellì.
Parlammo del suo male, ovviamente. Non si lamentava: descriveva ciò che viveva dentro e che vedeva intorno a lui. In tante notti passate a battere sui tasti, uno da una parte del mondo e l’altro dall’altra, Giuliano mi faceva leggere pezzi di cronaca: la cronaca della sua vita che sgusciava via, raccontata lucida attraverso il contesto, i medici, le cure, gli altri pazienti, considerazioni sociali e politiche che riguardavano non lui, ma il mondo. Non faceva il giornalista. Lo era e basta. Per Giuliano le cose non erano “cose”. Erano storie, notizie, cronache, parole. Nessuna malattia avrebbe mai potuto cambiare questo. E infatti non lo ha cambiato.
Quando, un paio di mesi fa, io decisi di chiudere i miei account social, cominciammo a scriverci per mail. Questo uno stralcio di uno dei suoi ultimi messaggi: “Tu sei, come me, un animale scrivano, e non ho dubbi sul fatto che tu continui a scrivere. Non pubblichi, non condividi le tue emozioni, gli scazzi e i sentimenti con chi, su questo, ha formato parte della propria sensibilità verso il non ordinario, a volte il bizzarro invisibile. E sbagli, verso chi ti segue e in qualche modo interagisce, a partire da me. Ti scrivo e ti scriverò, ma mi aspetto che anche tu lo faccia per proseguire il racconto delle nostre vite che abbiamo avviato in alcuni intensi brandelli di notti. Mi serve, mi aiuta”.
Un animale scrivano.
Ho riflettuto a lungo sugli scritti di Giuliano. Una cosa su tutte, mi ha colpito. Una cosa trasversale, presente in ogni pagina, riga, avverbio. La volontà di raccontare con disincanto, così da infrangere il solito velo di ipocrisie che ci avvolge tutti, nessuno escluso. Le pagine che scrisse pubblicamente su Cecilia, distruggendo uno dei tabù più terribili del nostro tempo e della nostra terra, sono l’esempio plastico di chi è stato Giuliano.
Un uomo che visse raccontando. Perché convinto che raccontare, in fondo, é il solo modo di vivere. Raccontare tutto. Specie il peggio. Portare a galla ciò che striscia sul fondo dei nostri pensieri più neri. Per dire, tra inchiostro e divertissement, che siamo tutti dei “re nudi”, un po’ ridicoli, di certo vergognosi, spesso bugiardi. In sintesi, bestiole appena appena evolute, piene di sbagli, difetti, incoerenze, fragilità. E se ci vuole coraggio per guardare il mondo e scriverlo senza menzogne, ce ne vuole il doppio per guardarsi dentro e poi sventolarsi fuori come una tovaglia, macchie e strappi compresi.
Mi promise di lasciarmi il suo coccodrillo. Glielo chiesi io: “Non azzardarti a morire senza mandarmelo: io leggo, aggiungo e metto doppia firma. Lo diamo a Denuzzo o ce lo vendiamo all’Eco come ultimo tiro mancino al nostro vecchio direttore? Te la vedi la faccia del Denuz? Finisce che vi seppelliamo insieme”.
Mi rispose che l’aveva quasi pronto. Scherzammo a lungo e ridemmo forte nell’immaginare i paragrafi più divertenti del suo epitaffio. Quasi litigammo su come inserire la storia dei risotti. Così, tanto per esorcizzare insieme, a modo nostro, cinico e bastardo, l’inevitabile che già stava dietro l’angolo. Il marrano non ha mantenuto la promessa. Se ha scritto, ha cancellato. O nascosto. O magari ha mandato tutto a qualcun altro, cosa che non gli perdonerei mai.
Lo saluto così, il “Gram”, con queste quattro parole stracciate, ricordando le tante cose imparate leggendolo, malinconico per quelle che avrebbe ancora potuto insegnarmi. E con la nostalgia feroce di chi sa per certo che sarà difficle, forse impossibile, trovare un altro “amico d’epistola” capace di scriversi come si scriveva lui. Non so che cosa perdiate voi, oggi. O che cosa perda la nostra cittadina di provincia. Ma so che cosa perdo io: un amico con il quale condividevo la stessa idea bislacca di vita. Siamo storie da raccontare. Tutti. Storie che poi, un giorno, finiscono. E se le raccontiamo bene, qualcuno le ricorderà.
Edoardo Tagliani
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