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Per Expo mobilitiamo la Madonna d’Oropa
Di miracoli in carriera ne ha fatti molti, come testimoniano gli ex voto esposti alla devozione popolare. Tre sono autenticati da regolari processi canonici e tre lapidi in marmo con scritte in latino sul fianco sinistro del Sacello lo attestano: nel 1661 Giovanni Sà da Chambery, muto perchè privato della “lingua tagliatagli per crudeltà da alcuni predoni fino alla radice svariati anni prima”, supplicò la Vergine Santissima e riottenne miracolosamente sia la parola che la lingua (“…lingua hic momento recepit…”). Anche Giovanni Battista Perrone ebbe la lingua mozzata dai turchi che nel 1718 l’avevano fatto prigioniero: qualche anno dopo venne ad Oropa ad implorare la grazia. E “nell’istante in cui monsignor Gattinara vescovo di Alessandria adagiò sul capo della Vergine il nuovo diadema, si sentì crescere la lingua e recuperare la parola.”
Nel 1672 “Giacomo Vallet di Champorcher della diocesi di Aosta sofferente di convulsioni in tutto il corpo, privato delle capacità naturali, per diciotto anni giacque immobile in una stalla. Implorando la Vergine di Oropa, in un attimo fu restituito alla salute“. Ma la specialità della nostra amata Madonna Nera fu la peste da cui in varie occasioni, mentre altrove infuriava, preservò Biella e diverse comunità del Biellese e del Vercellese che, da allora, si recano annualmente in processione ad Oropa. Accadde nel 1522, poi ancora nel 1599 (anno in cui Biella registrò 460 morti di peste su una popolazione di 6.000), e nel 1630, l’anno della pestilenza descritta da Manzoni ne “I promessi sposi”.
Iperattiva comunque, al punto che nel 1856 monsignor Losana, il fondatore della Cassa di Risparmio di Biella, uno che di contabilità e numeri la sapeva lunga, inviò alla Santa Sede un “Sommario di Miracoli” compiuti dalla Vergine d’Oropa: sono 560, elencati con precisione ragionieristica; si va dai 73 salvati “da cadute precipitose”, ai 58 “da naufragio”, ai 48 “da malattie dichiarate mortali”, ai 14 “muti e senza lingua che hanno recuperato la parola”, in un campionario di sfighe, spesso purulente com’era di moda all’epoca, da cui risulta che non ci siamo fatti mancare nulla.
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