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Il calvario di mio padre

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Il calvario cominciò circa due anni fa.  Un calvario come tanti, quello di mio padre. Un calvario di cui oggi è inutile dire. Ma in questa tersa mattina di gennaio, poco prima di accompagnarlo in terra, sento l’urgenza di battere due tasti e dire invece qualcosa della pietosa strada su cui Claudio ha mosso gli ultimi, faticosi passi.

Il calvario cominciò circa due anni fa.  Un calvario come tanti, quello di mio padre. Un calvario di cui oggi è inutile dire. Ma in questa tersa mattina di gennaio, poco prima di accompagnarlo in terra, sento l’urgenza di battere due tasti e dire invece qualcosa della pietosa strada su cui Claudio ha mosso gli ultimi, faticosi passi.

Capitò tutto quasi d’improvviso, due anni fa. O forse no. Forse i segni del male erano già lì da tempo, ma un figlio distante quale io sono da anni, o non li ha visti, o non li ha voluti vedere. Poco importa. Importa invece che in un pugno di settimane soltanto, quell’omone robusto nato in una Brescia in guerra e poi migrato nelle valli del Mucrone per sbarcare il lunario, cadde nell’incubo che ci terrorizza tutti. Si perse. La sua mente decise di andarsene, alla faccia di muscoli e ossa.

Furono giorni terribili, tra reparti che rifiutavano un paziente tanto difficile, sedativi, medici amorevoli e dottori senza cuore. Di quei giorni, passati a metà tra aeroporti e dogane e a metà tra ospedali e pubblici uffici, ricordo la voglia di abbracciare qualche sconosciuto e di ucciderne altri.

Poi il ricovero al Cerino Zegna. Mi vergogno ancora, di quel pomeriggio affannato. Mi dissero che una stanza si sarebbe liberata dopo 48 ore. Io, al telefono, esausto poco meno di mia madre, seduto nel corridoio del reparto di psichiatria dell’Ospedale di Biella, chiesi all’impiegata se non fosse possibile anticipare il ricovero. Solo mentre lo dissi mi resi conto di come si liberano le stanze in una casa di riposo. Oggi, l’ho imparato meglio. Cito unicamente il Direttore, Gian Andrea Rivadossi, perché la lista di quelli da citare sarebbe lunga e stamane sono certo che ne scorderei qualcuno.  E lo cito per ringraziare uno stuolo di persone. I dottori, gli infermieri, gli inservienti e il personale amministrativo del Cerino Zegna.

Perché sono loro che hanno accompagnato Claudio, mio padre, verso ciò che tutti sapevamo inevitabile. E lo hanno accompagnato con un’umanità e una professionalità tali da sorprendermi.

Ora, chi mi conosce, sa che io faccio un mestiere bizzarro e che sorprendermi non è facile. Io vivo in guerra per scelta, accanto alle genti che invece ci vivono per forza. Ne vedo tante, forse troppe. E’ difficile, davvero difficile, stupirmi. Eppure, il mio bizzarro mestiere, ha come faro la speranza. Si lavora con la prospettiva di poter salvare qualche pellaccia. A volte si riesce. Molto più spesso, no. Ma la speranza è sempre lì, dentro il cuscino di notte, dietro l’alba al mattino, avanti i sogni di sera.

Tra quelle stanze di Occhieppo, le cose non vanno così.  Il futuro è già scritto. La speranza non cammina nei corridoi del Cerino. Dirlo fa brutto. Non si dovrebbe. Ma sono troppo vecchio, troppo cinico e troppo stanco, per scrivere bufale.
E allora, in questi anni, tante volte mi sono chiesto quante tonnellate di coraggio abbisognino, per accompagnare alla morte chi deve morire. Quanti metri di umanità serva arrotolarsi in tasca, per poter fare un mestiere ancora più bizzarro del mio. Di certo più duro, di certo più nobile, di certo più pietoso. Un giorno dopo l’altro, un giorno appresso all’altro, regalando pace e conforto a quelli che l’hanno finita, la speranza. Ma che ancora attendono, senza scampo alcuno, il privilegio del morire.

Ho visto mio padre spegnersi nel “meno peggio” dei modi possibili. Oh, se fosse stato soltanto per il suo male maledetto, il calvario sarebbe stato più feroce. Tanto più feroce. Invece.  Lo hanno accudito. Mentre io, lontano, facevo altro.  Lo hanno preso per mano fino alla fine. Sono riusciti a farlo sorridere. Persino.
E mentre io volavo tra l’altrove e l’Italia, facendo capolino a Occhieppo quando possibile, qualche infermiere aveva cominiciato a chiamarlo “Claudietto”.  Abituato a pensarlo come quell’omone grosso che arrivava da Brescia e che era mio padre, solo sentendo “Claudietto” mi resi conto davvero di quanto fosse dimagrito, di quanto si fosse fatto piccino ed inerme, indifeso, come io fui un tempo, bambino, tra le sue braccia.

Tra un paio d’ore, getterò terra sul legno della cassa.  Prima di farlo, scrivo il mio grazie con prosa incerta, che stamane le dita un poco tremano, ma sincera. A tutti coloro, e sono tanti, che hanno operato l’umano miracolo dell’ultima pietà. Io non so se loro si rendano conto sino in fondo dell’importanza del loro mestiere. Forse, talvolta, le cose della vita spicciola come la spesa, le bollette o un guasto alla caldaia, fanno loro scordare il valore di ciò che fanno. Io, però, non lo scorderò mai.
Il valore di ciò che fanno.
Se avessi parole migliori, oggi le userei.  Ho solo queste, oggi. Grazie.
Edoardo Tagliani

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