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Archeologia industriale o cimitero di un’epoca?

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Negli ultimi numeri, questo giornale ha puntato gli occhi su quello che è stato definito il “degrado” cittadino determinato dagli edifici abbandonati. Non è male, di tanto in tanto, alzare gli occhi dalla punta delle proprie scarpe, guardarsi attorno e scoprire cos’abbiamo nella vista che si ferma tra cielo e terra. L’approccio giornalistico adottato è piuttosto neutro, in bilico tra lo sdegno dello sporco che non si riesce a far scivolare sotto al tappeto e la pietas per le condizioni dell’umanità che popola quel degrado. E qui, secondo me, sta l’inghippo. Ho la convinzione – che spesso m’illudo sia solo tale – che il lavoro in questione susciti lo sdegno dell’Uomo Qualunque per l’esposizione così sfrontata dei detriti delle umane miserie, piuttosto che quella dei detriti postindustriali, abbandonati a se stessi in attesa di speculazioni edilizie vero degrado delle ultime italie a cui abbiamo assistito. Per un malinteso senso della proprietà privata, questi edifici ora ex opifici hanno da sempre violentato il territorio. Anche se ne hanno fatto la fortuna, mentre ora ne mostrano la decadenza a cielo aperto.

Da oggi Lele Ghisio raccoglie la pesante eredità lasciata da Giuliano Ramella. La rubrica mantiene lo stesso titolo. Ci è sembrato il modo migliore per tenere Giuliano sempre con noi. All’amico Lele un grazie per avere accolto l’invito e un grande in bocca al lupo.

 

Negli ultimi numeri, questo giornale ha puntato gli occhi su quello che è stato definito il “degrado” cittadino determinato dagli edifici abbandonati. Non è male, di tanto in tanto, alzare gli occhi dalla punta delle proprie scarpe, guardarsi attorno e scoprire cos’abbiamo nella vista che si ferma tra cielo e terra. L’approccio giornalistico adottato è piuttosto neutro, in bilico tra lo sdegno dello sporco che non si riesce a far scivolare sotto al tappeto e la pietas per le condizioni dell’umanità che popola quel degrado. E qui, secondo me, sta l’inghippo. Ho la convinzione – che spesso m’illudo sia solo tale – che il lavoro in questione susciti lo sdegno dell’Uomo Qualunque per l’esposizione così sfrontata dei detriti delle umane miserie, piuttosto che quella dei detriti postindustriali, abbandonati a se stessi in attesa di speculazioni edilizie vero degrado delle ultime italie a cui abbiamo assistito. Per un malinteso senso della proprietà privata, questi edifici ora ex opifici hanno da sempre violentato il territorio. Anche se ne hanno fatto la fortuna, mentre ora ne mostrano la decadenza a cielo aperto.

 

Lo hanno violentato, in passato, impedendo l’accesso ai fiumi e alle bellezze naturali che ci circondano e che, nel presente, disperatamente tentiamo di vendere a un turismo di genere.

 

Il concetto di “parco fluviale” è stato sempre e solo sussurrato proprio per il degrado che presentano questi immobili – nello spazio e nel tempo – che invece di rifare la fortuna del territorio presentandosi come archeologia industriale, ne significano lo stato di abbandono presentandosi come il cimitero di un’epoca. Non paghi, gli edifici e i loro proprietari, si ostinano a marcare il territorio d’inaccessibilità con i “lucchetti, recinzioni e grate” descritti negli articoli che hanno dato il la a questo sfogo. Gli ex Rivetti sono un inferno per chi, ora, li vive nella loro quotidianità precaria, non certo per chi li guarda e passa. La civiltà di un popolo non si misura per lo sdegno che prova al passaggio, ma per l’orgoglio che ha nel raccontare la propria storia. Noi non l’abbiamo fatto mai, se non nelle rare occasioni in cui, in qualche modo e a volte maldestro, l’iniziativa privata ha reso socialmente fruibili frammenti di quella storia. Che, da passato, è tornata a farsi presente con tutta la sua contemporaneità. Il degrado non sta in chi usa come riparo notturno questi stabili abbandonati: sta in coloro che non li usano affatto e li cintano come si cintano i cimiteri, ai margini della città.

 

Lele Ghisio

 

Sono grato al direttore De Nuzzo d’avermi proposto d’occupare questo spazio. Gli sono grato perché Giuliano Ramella è persona che stimo, ancora. Con i suoi calembour lessicali ha deliziato a lungo il lettore, usandoli a pretesto per raccontare questa città. Tentare di colmarne il vuoto e l’assenza un po’ m’intimorisce, ma mi riempie d’orgoglio.

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