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Quando allo stadio c’erano i cavalli

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Nella tarda primavera del 1966 lo stadio sportivo Lamarmora di Biella fu teatro di un’interessante manifestazione, il 1° Concorso Ippico Interregionale “Città di Biella”, che richiamò nel centro laniero «una moltitudine di appassionati, competenti e […] curiosi»

di Rolando Magliola

Nella tarda primavera del 1966 lo stadio sportivo Lamarmora di Biella fu teatro di un’interessante manifestazione, il 1° Concorso Ippico Interregionale “Città di Biella”, che richiamò nel centro laniero «una moltitudine di appassionati, competenti e […] curiosi» (“Biella: rassegna mensile del Comune e bollettino statistico”, anno V, giugno/luglio 1966). A promuovere l’evento, di concerto con l’amministrazione comunale e con la Società Ippica Torinese, fu il Centro Ippico Sportivo “Città di Biella” fondato da Davide Felice Aondio, proprietario della tenuta “La Mandria” di Candelo. La storia de “La Mandria” è stata narrata dallo stesso Aondio (scomparso nel 2007) in un volumetto di piacevole lettura pubblicato una decina di anni fa e al quale sicuramente rimandiamo; nelle righe che seguono daremo qualche cenno sulla figura di Davide Felice Aondio, in particolare per quanto riguarda la sua passione per i cavalli che ha contribuito alla diffusione del turismo equestre in Italia.

Quando nella primavera del 1951 arrivò nel Biellese, Davide Felice Aondio (originario della zona di Lecco) era un perito agrario di ventisei anni responsabile di una società che si occupava di bonifiche agrarie e forestali; l’industriale Umberto Locatelli, titolare dell’omonima società leader nel commercio dei formaggi nonché senatore del Regno (eletto nel 1937, mantenne la carica anche nel dopoguerra per meriti patriottici), gli aveva affidato l’incarico di redigere una serie di accurate relazioni sulla situazione patrimoniale delle sue quattro aziende agricole piemontesi nell’alto vercellese. Il trasferimento in quel di Candelo dischiuse al giovane perito agrario un mondo sconosciuto ma affascinante: «Venire di Lombardia, da Lecco ormai satura di persone e motori ed approdare nella piana di Candelo, circondata da colline e ricca di sorgive, corsi d’acqua e boschi secolari e fitte cespugliaie popolate di animali selvatici, fu per me come un sogno. Vissi i miei primi mesi quasi frastornato dalla natura che mi circondava. […] Non osavo nemmeno pensare che un giorno sarebbe diventato tutto mio» (Davide Felice Aondio, “La Mandria. Guadagnarsi la terra”, Arti Grafiche Biellesi, Candelo 2004). L’aver svolto il compito a lui affidato con molta cura e precisione valse ad Aondio l’assunzione alle dipendenze di Locatelli in qualità di sovrintendente generale delle Tenute: da quel momento, con il sostegno della moglie Giuseppina, egli si impegnò a fondo nella gestione delle proprietà piemontesi, nell’intento di rimediare alla situazione non florida che si era trovato a dover fronteggiare: «[…] a portar danno – ha ricordato anni dopo nelle sue memorie – aveva contribuito oltre all’incuria totale delle varie gestioni anche il passaggio cruento della guerra». Aondio riuscì anche a convincere il suo principale della necessità di rinnovare e accrescere il parco cavalli: «Comprai i cavalli a Santhià, dai Fratelli Ruffino, direttamente sui binari, appena scaricati dai vagoni provenienti dall’Est europeo. Preferivo i soggetti ungheresi, perché erano abituati al lavoro in campagna e in più si potevano anche sellare».

Alla morte di Locatelli, avvenuta nel 1958, i figli avanzarono all’instancabile sovrintendente la proposta di rilevare in comodato una delle cascine, con la possibilità di acquistarla negli anni a venire: Aondio scelse Cascina Barberis (dal nome del precedente possessore, il conte Ettore Barberis). Divenutone in seguito proprietario, si dedicò al miglioramento del settore zootecnico, con particolare impegno nell’allevamento dei bovini, arrivando anche a proporre (peraltro senza successo) all’Ospedale di Biella l’acquisto del latte prodotto nella tenuta.
Rivolse quindi la sua attenzione ai cavalli, i quali avevano rappresentato un elemento fondamentale nella vita della sua famiglia: «Mio padre aveva avuto in scuderia fino a 40 cavalli; mio cognato pure, anche se erano soggetti da lavoro o carrozzieri. […] In famiglia la grande appassionata di cavalli era mia madre e ci teneva che tutto fosse sempre in perfetto ordine».

Nell’Italia avviata verso la modernizzazione e il boom economico l’equitazione appariva una pratica ormai in disuso: «Erano anni che nessuno più montava a cavallo e in Italia i cavalieri erano ridotti a poche centinaia, forse anche meno» (D. F. Aondio, “La Mandria. Guadagnarsi la terra”). Il generale Mario Badino Rossi, autore all’inizio degli anni Sessanta di un dettagliato volume sulla Scuola di Applicazione di Cavalleria di Pinerolo (“la fucina dei cavalieri d’Italia”, istituita nel 1823), attribuiva la crisi dell’arte equestre italiana a una serie di concause quali la «diffusione avvenuta, senza cognizione di causa, delle concezioni dissidenti […] che portarono a falsare l’assetto e l’impiego dei mezzi del cavaliere, a danno dell’assieme col cavallo»; la «carenza di cavalli e impianti e mezzi vari»; la presenza di «cavalieri giovanissimi ed ignari del passato equestre»; il «difetto qualitativo e numerico di istruttori capaci»; e infine «una diffusa mancanza di indirizzo e di fede nel “sistema” [la dottrina equestre ideata dal capitano Federico Caprilli alla fine dell’Ottocento] – non conosciuto e non insegnato nel giusto spirito – in conseguenza della soppressione della Scuola di Applicazione di Cavalleria» (M. Badino Rossi, “Pinerolo: l’arte equestre italiana, la sua fucina, i suoi artefici”, Scuola Tip. Dei PP. Giuseppini, Pinerolo 1960).

Malgrado le premesse poco incoraggianti, la notizia che presso la tenuta Aondio di Candelo era possibile cavalcare ebbe rapida diffusione e richiamò gli appassionati del genere, attratti dall’idea di trascorrere ore piacevoli esplorando l’«immenso e selvaggio Baraggione»: «I primissimi furono i nobili – qui nella zona ce n’erano diversi e tutti sapevano montare a cavallo. Venivano anche molti ufficiali o ex ufficiali […]. Subito dopo di loro arrivarono i grandi industriali […]. Poi arrivarono i primari, i magistrati e i professionisti». L’incontro con il conte Jan Vialardi, direttore della Società Ippica Torinese, e con il generale di Cavalleria (in congedo) Ruggero Ubertalli influirono in modo decisivo sulla formazione “equestre” di Aondio, che peraltro già intorno alla metà degli anni Cinquanta aveva deciso di frequentare il corso per istruttori a Torino e a Milano. Il passaggio dalla Scuderia Aondio al Centro Ippico Sportivo “Città di Biella” sancì il successo di una nuova attività che per merito di Davide Felice Aondio aveva avuto origine e diffusione proprio nel Biellese: il turismo equestre.

Negli anni Sessanta si verificò quello che lo stesso Aondio ha definito il «boom dell’equitazione», legato al miglioramento delle condizioni economiche degli italiani e alla conseguente possibilità di dedicare più tempo allo svago. Date queste condizioni, non può stupire che anche Biella sia stata sede di una manifestazione equestre di elevata risonanza, il Concorso Ippico Interregionale (5 giugno 1966), al quale parteciparono una settantina circa di cavalieri, tra i quali non mancarono figure prestigiose dell’equitazione nazionale e internazionale, come la campionessa olimpica Lalla Novo. Tra le autorità presenti – il sindaco Borri Brunetto, assessori e consiglieri, il presidente del Panatlhon avv. Mecco, i conti Vialardi di Sandigliano – spiccava la principessa Maria Cristina d’Aosta, figlia del duca di Aosta Amedeo di Savoia; anche i biellesi non delusero le aspettative degli organizzatori: «Il pubblico, naturalmente, ha offerto uno spettacolo nello spettacolo: numerosissime le signore molte delle quali hanno sfoggiato eleganti toilettes estive mentre altre hanno preferito l’abito sportivo». Lo stadio Lamarmora si dimostrò il palcoscenico ideale per una simile manifestazione, pur con qualche inconveniente legato alle non perfette condizioni del terreno: «Pittoresco il campo di gara. Il terreno di gioco del “La Marmora”, interamente coperto di verde, faceva da sfondo ai pittoreschi colori delle divise di amazzoni e cavalieri mentre gli ostacoli disseminati lungo il percorso rendevano ancor più suggestivo lo spettacolo» (“Eco di Biella”, 06.06.1966)  Articolato su tre gare, il concorso si aprì con la disputa del “Premio Scuderia Aondio”, in cui si impose Giorgio Lupi su Sillelagh; seguì la disputa del “Premio Ente Turismo”, nel quale la vittoria andò alla campionessa Lalla Novo su Vanna Fucci; a chiudere la giornata fu il “Trofeo Città di Biella”, prova più impegnativa che vide Fabrizio Manacorda su Ascari precedere di pochi secondi la Novo, aggiudicandosi così il trofeo. Concorde fu la giuria nell’assegnare ad entrambi la medaglia d’oro come miglior cavaliere e migliore amazzone del concorso.

rolando.magliola@gmail.com

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