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Eventi & Cultura

Il cinema delle idee

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Arrivano cinque o sei ragazzi con borse, sacche, cappotti e un proiettore. Noi siamo alla Fondazione Einaudi, dietro Porta Palazzo a Torino, che ha il riscaldamento mal funzionante e un patrimonio di volumi che ti sommerge con la consapevolezza di quante cose importantissime, bellissime, che ti fanno capire il mondo e le persone sono state scritte e tu non ne sai nulla; è domenica, siamo qui tutto il giorno con il gruppo di artisti e curatori Artinreti che discutiamo di che cosa possa essere l’arte pubblica, e di come realizzare dei progetti qui in Piemonte.

Arrivano cinque o sei ragazzi con borse, sacche, cappotti e un proiettore. Noi siamo alla Fondazione Einaudi, dietro Porta Palazzo a Torino, che ha il riscaldamento mal funzionante e un patrimonio di volumi che ti sommerge con la consapevolezza di quante cose importantissime, bellissime, che ti fanno capire il mondo e le persone sono state scritte e tu non ne sai nulla; è domenica, siamo qui tutto il giorno con il gruppo di artisti e curatori Artinreti che discutiamo di che cosa possa essere l’arte pubblica, e di come realizzare dei progetti qui in Piemonte.

I ragazzi appena arrivati ridono e si prendono in giro tra loro, intanto preparano la proiezione e dicono chi sono. Due hanno la barba e si assomigliano. Viene fuori che sono fratelli. Penso che anche i Taviani sono fratelli e che il racconto sotto traccia di questo loro rapporto è forse la cosa più bella di “Cesare deve morire”, film capolavoro che dice che cosa sia l’Italia senza passare dalle meschinità dei predoni che la stanno saccheggiando da decenni. I ragazzi, quest’oggi, ci portano una chicca, dicono. Parte la proiezione e si vede un vecchio che cammina trascinando una sporta per la spesa con la ruote. Cammina lungo una strada squallida e sporca che man mano si snoda tra spazzatura fino a sembrare che passi in una discarica, poi si vede che ci sono baracche e gente, è un campo rom, l’uomo arriva in una baracca, guarda dentro alla telecamera. Poi un’altra scena (si tratta di materiale girato e non montato) e un altro uomo dentro un’altra baracca passa una lente su una scheda di computer, ha uno strumento in mano, probabilmente fa un qualche lavoro con quella roba.

Uno dei fratelli dice che anche loro vogliono fare così, portare la lente lì, sul campo rom di Lungo Stura Lazio, dove fino a 600 degli abitanti saranno trasferiti in case popolari dalla Prefettura, come esito di un processo innescato da Maroni quand’era Ministro dell’Interno. Qualcuno gli fa domande per sapere che cosa ne pensino i rom, e lui dice che non aspettano altro, che non sono lì per scelta, e che il programma prevede che debbano abbattere loro stessi la baracca in cui vivevano, per poter avere diritto alla casa della Prefettura. Si vedono adesso immagini di un abbattimento fatto dai rom stessi. Chiedo se sanno che cosa faranno dei terreni su cui adesso c’è il campo. Non si sa. Penso al libro documentario, proprio su questi luoghi, fatto da scrittura pura e soprattutto al suo titolo pazzesco: “Il futuro del mondo passa da qui”. Difficile pensarlo a vederlo.

Ma chi sono questi ragazzi che ci portano queste immagini e dicono di voler raccontare quello che sta succedendo a questa gente che abita negli interstizi delle città? Vengono da vicino ai luoghi del campo. Un quartiere con nomi diversi, tutti che suonano all’orecchio di un torinese come sinonimi di periferia, aree marginali, frontiera urbana, degrado. Lì c’è un edificio sgraziato, ai piedi di condomini anni 60. è un cinema. Si chiama il piccolo cinema. Loro dicono che sia “… il prolungamento di un altro spazio (la scuola, la fabbrica, la parrocchia), che torna ad essere un’estensione della vita, senza soluzione di continuità. L’opposto del multisala, la cattedrale aliena dove tutto è sotto controllo (luce, odori, suoni, temperatura) per recidere il cinema dalla vita, per fare in modo che la visione di un film non abbia nulla a che fare con l’esistenza.”

Sono partiti da piccoli, visto che sono partiti nel 2004. Adesso in questo spazio, che sono riusciti ad ottenere dalla Circoscrizione e dalle istituzioni locali, passa la gente del quartiere e si guarda un film in compagnia. Una cosa intima che invece si vuole fare insieme agli altri. Prima e dopo del film parlano. Hanno trovato dei modi per attrarre la gente. Per esempio chiedono di portar lì le vecchie videocassette. Quelle che ormai non servono più a niente. Anche perché i videoregistratori non li ha più nessuno. E poi se uno vuole vedere un film magari degli anni ’80, lo può scaricare da internet. Ma così decine di persone si sono avvicinate al piccolo cinema. Hanno portato le loro cassette e hanno organizzato delle serate in cui si proiettavano quei film. Si vedono i martedì sera. Dove si parla di cinema. Chi viene porta i propri argomenti. E da lì nascono idee su cose da fare. Come dei corsi di cinema che si chiamano dis-corsi.

A un certo punto dicono che devono scappare. Devono andare a lavorare. A filmare il campo rom.
Alla Fondazione Einaudi, noi ci guardiamo e sappiamo che arte pubblica vuol dire tante cose. Quelle come questa hanno un senso importante.

Penso al concetto di Contropaesaggio su cui sto lavorando a Cittadellarte con diverse persone. Alla consapevolezza della difficoltà di produrre immagini, visioni e narrazioni divergenti, rispetto alla storia che ci raccontano i media e le convenzioni. E come basti un piccolo cinema a scatenare un’energia capace di cambiare il paesaggio mentale e visivo di una parte di città. E non solo.

Paolo Naldini

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